lunes, 12 de octubre de 2015

ALIDA AIRAGHI [17.207] Poeta de Italia


Alida Airaghi

Alida Airaghi  (Verona, Italia 1953) es una poeta italiana.

Se graduó por la 'Universidad Estatal de Milán en literatura clásica, vivió y enseñó en Zurich de 1978 hasta 1992. Se casó con el poeta Siro Ángeles, con la que tiene hijas Daria y Silvia. Hoy (2015) vive en Garda.

Colabora en varias revistas y periódicos, italianos y suizos.

OBRA: 

L'appartamento , in Nuovi Poeti Italiani n. 3, Einaudi 1984
Rosa rosse rosa , Bertani 1986
Appuntamento con una mosca , Stamperia dell'arancio 1991
Le seguenti plaquettes presso le edizioni Lietocolle:
Il lago , 1996
Sul pontile, nell'acqua , 1997
Litania periferica , 1998
Le mura di Verona , 1998
Il peso del giorno , La Luna, Grafiche Fioroni 2000
Litania periferica , Piero Manni 2000
Un diverso lontano , Piero Manni 2003
Frontiere del tempo , Piero Manni 2006
Fine dicembre , Le Onde 2010
Il silenzio e le voci , Nomos 2011
Versi editi e inediti , in Nuovi Poeti Italiani n. 6, Einaudi 2012




Alida Airaghi: Poemas de “Un diverso lontano”



Dove saremo, caro, dove saremo
quando non ci saremo
più?
In qualche pensiero che abbiamo pensato
di noi, in una carezza sospesa
a mezza mano:
e in questa attesa
di un poi, di un diverso lontano.



*



¿Dónde estaremos, querido, dónde estaremos
cuando no estemos
ya?
En algún pensamiento que creemos
de nosotros, en una caricia suspendida
a media mano:
y en esta espera
de un después, de un diferente lejano.



*



E’ nel tuo silenzio che mi ascolto,
nel tuo raccolto tacere; voce di allora
ricomposta a memoria. E’ nel tuo non esserci
che io ci sono; e sfogo i miei minuti,
i mesi, e prego che tu sia – ancora,
e ancora – in qualche luogo, e sappia
pronunciare il mio nome, ripeta a chissà chi
la nostra storia, e chissà come.



*



Es en tu silencio que me escucho,
en tu recogido acallar; voz de entonces
recompuesta de memoria. Es en tu no estar
que yo estoy; desahogo mis minutos,
los meses, y rezo que tú estés – aún,
y todavía- en algún lugar, que sepas
mencionar mi nombre, que repitas a quién sabe quién
nuestra historia, y quién sabe cómo.



*



Se ti tocco i capelli
è per trattenerti nel tuo corpo,
nei tuoi confini stretti
di pelle, sotto le dita
che mi tremano.
Vorrei fermarti ancora:
in questo preciso momento,
con questo gesto che implora.



*



Si te toco el pelo
es para apresarte en tu cuerpo,
en los confines estrechos
de tu piel, bajo mis dedos
temblorosos.
Quisiera sujetarte aún:
en este preciso instante,
con este gesto que implora.

De Un diverso lontano, 2003.
Traducción de F.C.
https://sevencrossways.wordpress.com/2014/09/page/3/





Non sono onde.
Ne avrebbero forse
l’intenzione, increspature leggere,
rughe dell’acqua, e basta.
Non sarà mai tempesta
questo lago, scarso coraggio
di farsi mare, se accoglie un fiume
lo placa, lo annulla in una quiete
casta.


“Penelope”
non per lui,
lontano e indifferente
a quanto altro non fosse la sua casa
( i muri, intendo, suppellettili
come il letto - a lui obbedienti)
che sapevo
impaziente di un caldo viziato:
il mio corpo è vecchio, gli occhi
ormai duri.
ma io,
io per la tela stessa lavoravo.
lei sola, in tutta Itaca,
aspettava la mia mano.

(da Un diverso lontano)


*
C’è un fondo al cielo,
in fondo al cielo: e prima luce,
e primo buio. Fine di tutto,
innanzi a tutto.
Velo che tieni il mondo,
ripara il fiore,
il frutto.


*
(Inedito)

Ho letto le poesie di Prados
in un libro che era di mio marito:
c'è il suo nome, il luogo, la data
e segni di matita accanto ai versi
che gli sono piaciuti.
"Quien roba luz en las ramas
del arbol?"
Si sarà tolto gli occhiali,
avrà guardato fuori.
Mi tolgo gli occhiali, guardo fuori,
segno con la matita altri versi.
"Mi soledad me ha sorprendido
como una forma humana".
Lui è morto da undici anni,
e il libro di Prados è del sessantasei.




L’IMPERFEZIONE DELLA PIOGGIA

(Omaggio a Andrea Zanzotto, rileggendo “La Beltà”)

Obstrepente pluvia, effusis imbribus,
(scende la pioggia ma che fa?) scende
battente, bat-tente, bat-tenta: tenta
di sciacquare scialacquare allagare alluvionare
il mondo (Mondo, sii, e buono;
esisti buonamente).
Ma il troppo da lavare sbiancare pulire
a cieli arcaici aciduli; basterà? basterà?
Una pioggia universale, un diluvio epocale
o la buriana che le sceme
fosse inacqua e aera le supreme
nullezze: annientando annullando dilavando
il niente ex nihilo usque ad libitum…
E affilare e affiorare
di sassi di massi di fango di melma
e pozzanghere: grigio grigio bigio nero.
Piove, per tutti gli dèi, piove,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
attraverso sidera et coelos,
pioggia perfetta, perfettissimo essere d’acqua,
sciogliti, infine!, impregnati di te, beviti,
ingozza la terra e slurp slurp
(sniff sniff gnam gnam yum yum),
affoga affonda affluisci affluente
fiume, precipita sui tetti aguzzi,
sui tegoli vecchi, a secchi, a cisterne,
a imbuti e caverne, affonda, innaffia,
annega. Oppure picchia argentina
“rain and tears”,
piccolina-ina-ina, pioggerellina
d’aprile crudele, sciacquetta,
moltofiore moltocielo moltorugiada
gentile sottile primaverile rinfresca
cose e cosine
musichette lucignoli e zuccheri,
lucida foglie asfalti vetrine suv e tir,
aziona lenti tergicristalli, rinfresca le menti,
röslein rot, rosellina tra le spine:
“Passata è l’uggiosa invernata,
Passata, passata!”
E che sarà di noi?
Che sarà del libero arbitrio e del destino?
Ancora uccellini svolazzanti nell’azzurro
di un cielo ripulito
vivario acquario dei verdi dei vivi:
Beltà beltà gorgheggiano
passeri rondoni cinciallegre
e fontanelle ruscelletti cascatine
da-de-ex-ab alto scendono gorgogliano
l’inno alla natura alla bellezza agli universi
espressione di che? (pensiero: no; azione: no;
amore: no; paesaggio: no)
la vigna pesa trasuda e fa mamma-mamma…
E io? E io? E frottole e scippi
magnifici di p – poeti.
Una riga tremante Hölderlin fammi scrivere:
sull’acqua sulla pioggia (la sua perfetta
imperfezione abbondante intrusione eclatante benedizione)
mentre balbetto ondeggiante fremo
e viene avanti il più nulla di tutti i miei nulla,
I’m singing in the rain e ballo e sguazzo e rido
sotto l’ombrello, il tutto del tutto intuendo
(ahi il primo brivido del salire, del capire)
ringrazio la pulizia dell’acqua, la polizia, la poesia,
i così sia, larga la foglia stretta la via
– dite la vostra che ho detto la mia.
Il sale della lacrime, il sale del mare, il sale della terra,
e piante e fiori e erba
dentro la mondiale tenerezza.
Disinibiti monti caduti disagi;
e piove piove sul nostro amor.

“E’ tutto, potete andare”.

In “L’Immaginazione” n. 278, novembre 2013






HANS CASTORP C’ EST MOI

(0maggio a Giovanni Giudici, rileggendo la sua “ La Bovary c’est moi” e “La montagna incantata” di Thomas Mann – 1995)

I

Deve essere stato l’abbaglio di un momento
un tac di calamita da una parola mia o sua.

Da quale frase o sorriso a metà,
gesto delle tue mani nell’aria sospeso:
è stata forse la tua falcata, imperiosa
benché impacciata, maga Midons, encantadora;
oppure un sortilegio della nebbia di Davos
da cui sei uscita – porta sbattuta, mia matita
imprestata. Ma ti amo, e sobbalzo
a ogni passo di dama, e ti indago il pensiero
caso mai fosse vero, fosse possibile che.
Se non sai cosa amare, scegli me.

II

mio amore quanto errore e dolore ci divide
quanto futuro senza futuro si spalanca.

Pensami nella mia stanza che assomiglia alla tua,
ed è diversa, su un altro piano. Pensami
sul balcone a provarmi la febbre che non scende.
Mia malata senza domani, sei il mio male
e non guarisci, non migliori: disperata
mi allontani da un futuro indiviso, indivisibile,
che non temo perché non lo amo, destinato
com’è a non averti. Di noi il medico dice
“Abbiate cura della vostra salute”;
ma non sono i polmoni, non capisce.

III

sul fruscio tra gomme e asfalto o dov’è neve
questa luce ti arrivasse questa ombra

Potessi essere tu le pagine che sfoglio
di un volume dell’enciclopedia; lucide, intonse
alle mie dita che tremano dal freddo
e per amore. Fossi tu la pace che è il tuo corpo
quando lo intravedo di sfuggita, ombra
che cammina per la strada in salita, o seduta
in distanza al ristorante. Pace ai miei occhi
i tuoi occhi chirghisi, e labbra finalmente
sulla pelle che scotta. Pensiero nella mente
capace di spazzare le paure, i malocchi.

IV

Lontano come la luna mi domando come puoi
dirmi se è stata quella davvero l’ultima volta .

Dove sarai, mi chiedo, in quale tempo
e spazio fuggita, nascosta al mio bene
divenuto insopportabile? Partita senza dirmelo,
che era l’ultima volta e davvero, stavolta.
Se l’avessi saputo, avrei preparato un addio
come si deve, e non il saluto di sempre:
e ti avrei imparato a memoria, il vestito,
le scarpe, le parole taciute. Storia
della mia vita, non può essere che senza
preavviso, senza ripensamenti, tu sia finita.

V

Quale dei lunghi treni ti porterà?
Quale dei lunghi treni ti avrà portato?

Ma sono sicuro che ritornerai.
Me lo dico guardandomi allo specchio,
e mi vedo più vecchio da quando sei andata.
Sbatterai al tuo solito la porta
un mezzogiorno come tanti, trasaliranno
camerieri e pazienti, ma io no:
e non mi volterò al tuo passo strisciato,
anche se – senza fiato e trionfante –
potrei stringerti, stritolarti felice.
Mia signora e padrona, o beatrice.

VI

ma veri i giorni gli anni che per sempre
non ti avrò.

Almeno nel sonno ritorna, eterno presente
di un sogno che sappiamo tale, tu ed io.
E non allontanarti più di tanto, non sparirmi
del tutto: se dicessi una parola come Dio,
lo sai, sarei salvato. Invece eccomi qui,
reso a un peccato di scarsi amori stupidi,
perché tu non ci sei, né ci sarai,
viva nella mia carne e nei miei giorni.
O poterti abolire! Mandare via.
Chiamarti amore. Minne Beatrice Maria.

In “Litania periferica” , Manni, Lecce 2000




IL TEMPO

Nel suo non tempo
non faceva niente.
Pensava il tempo,
l’eterno presente.
Nel suo non luogo
non era dove.
L’ovunque esistere,
il sempre altrove.

**

Lui che non è tempo
ci ha abbandonati al tempo.
Nel tempo ci ha lasciati
e costretti. Tra confini.
Dall’essere al non essere,
persi come bambini.

**

Dio vuoto nel presente,
dio assente, dio ignoto.
Dio non del passato, del non passato,
dimenticato. Dio cancellato.
Dio nuovo, dio futuro,
dio puro; dio che non è ancora,
dio che sarà, dio libertà.

**

Tempio del tempo è il cielo,
in questa notte chiara,
illuminata immobile.
Che tace. La calma degli dei
è il suo respiro, e la sua luce.
Il tutto e il niente
di un’assoluta pace.

**

Ti rubano le ore, i giorni:
li riempiono di vuoto,
li svuotano di senso.
Con gesti e voci vane
annebbiano l’immenso,
ingannano l’ignoto,
i ladri del tuo tempo.

**

La mano che teniamo camminando
quando siamo bambini,
un certo giorno, all’improvviso,
lascia la nostra mano.
E la strada nella nebbia
fa paura, e la luce sulle scale
fa paura, e tenere un’altra mano
fa paura.

**

Tutto quello che non serve a niente
ha diritto di esistere per sempre:
in uno spazio-ombra evanescente,
in un tempo-non tempo inesistente.
Lì galleggiano inservibili disutili
i sogni dei bambini appena nati,
le voci dei bambini abortiti,
i regali d’amore rifiutati;
le lettere smarrite, i treni persi,
i versi cestinati: lì vivranno
sommersi e salvati
per il loro non essere stati.

**

In un altrove.
Dove vivere, quando.
Elsewhere. Lontano,
fuori tempo. Di contrabbando.
Via dagli eventi.
Disattenti.
Con minima percezione
di ciò che accade intorno.
Notte nel giorno.
Vivere altrove. Dove.

**

Quanto dura il tempo dei fiori?
Qualche giorno.
E intorno il profumo, i colori:
solo per qualche giorno.
Tempo breve e felice,
perché appartiene ai fiori.
Lieve, senza dolori.

**

Sempre in ritardo sulla speranza,
abbiamo fatto abbastanza?

**

In te, anima mia, misuro il tempo.
Ogni secondo, un battito del cuore.
Ogni secondo. Ogni stupore.
Maturo il tempo in te,
anima mia, affondo.

**

Tutto il mio tempo è attesa.
Ed attesa paziente, sicura.
Certa di una sorpresa che verrà
– voce amata al telefono,
luce accesa improvvisa nella notte.
E non ho più paura.
Lascio la porta aperta; ascolto
se per caso dei passi si avvicinino.
Sono la serva fedele che aspetta
senza conoscere il giorno e l’ora,
e conserva dentro sé la parola,
il ricordo di un volto.

**

Metto la tua vestaglia,
papà
quando di notte
ho freddo. In cucina
compio antichi gesti,
esitanti:
ripiego la tovaglia,
scaldo l’acqua del tè.
Come ti assomiglia
la ragazzina
che ti sedeva di fronte
mentre controllavi i tuoi conti.
Lei, immersa nei suoi libri
e tu in silenzio, davanti
al suo sapere che cresceva
e non serviva a niente.
La cucina è diversa,
tu sei un’ombra. Ma resti
nello stesso silenzio,
nella stessa vestaglia.

**

Quando ero più giovane,
e lui non c’era già più,
e le bambine erano ancora bambine,
allora le guardavo giocare
e ridere, le ascoltavo parlare
e mi dicevo “Le ho fatte io”.
Di notte entravo nella loro stanza,
e seduta per terra,
con poca luce dal corridoio,
spiavo i movimenti del sonno,
i lineamenti antichi e nuovi,
e ripetevo “Le ho fatte io”,
Ma non con vanto, no:
con stupore, perché ero stata
capace di tanto.
Loro crescevano, si allontanavano.
“Le ho fatte io”, mio tempo vero,
storia che non sarò.
Ma loro ancora, e i loro figli,
il male e il bene.
Com’è giusto che sia,
vita che si perde e si mantiene.

Da “Frontiere del tempo”, Manni, San Cesario di Lecce 2006.



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