Carlo Betocchi (Turín, 23 mayo 1899, - Bordighera, 25 mayo 1986) fue un poeta y escritor italiano.
Entre los poetas herméticos se considera una especie de guía moral. Sin embargo, en contra de ellos, basado sus poemas en los procesos analógicos que evocan significados, pero en un lenguaje directo, el realismo y la tensión moral.
Betocchi ha sido comparado con Giovanni Pascoli, de Umberto Saba, en el crepúsculo, en Clemente Rebora; pero en el siglo XX su camino es original, fuera de las corrientes literarias.
Principales obras
Poesía
Realtà vince il sogno , Firenze, 1932 ;
Altre poesie , Firenze, 1939 ;
Notizie di prosa e di poesia , Firenze, 1947 ;
Un ponte nella pianura , Milano, 1953 ;
Poesie , Firenze, 1955 ;
L'estate di San Martino , Milano, 1961 ;
Un passo, un altro passo , Milano, 1967 ;
Prime e ultimissime , Milano, 1974 ;
Poesie scelte , Milano, 1978 ;
Poesie del sabato , Milano, 1980 ;
Antologia personale , Padova, 1982 ;
Tutte le poesie , Milano, 1984 .
Ensayos
Una hermosa selección de ensayos y discursos, Confesiones menores, editado por S. Albisani, salió en Florencia en 1985.
Mi corazón está débil, esta noche
como el sol que lento sube
por los techos, y profundas son mis culpas;
¡ay! el hombre, como siempre se desvanece.
Como siempre, mientras él se desvanece,
queda el horizonte inefable
y el inmenso destino, para cualquiera,
del existir, ¡inmenso!
Lo que dejamos atrás
se arrastra hacia la oscuridad,
lo que nos espera es incomprensible
incluso el momento que pasa.
Yo estoy: ¡aquí me tienes! yo soy,
solo en este débil momento,
lo que decide: yo soy
la línea que divide
el pasado del futuro.
Momento eterno del ser
que te estabilizas en un instante,
eres tú mi gracia, decide.
Traducción de Patricia Corigliani
Il mio cuore è debole, stasera,
come il sole che lento risale
i tetti, e profonde sono le mie colpe;
ahi! l’uomo, come sempre tramonta.
Come sempre, mentre lui tramonta,
resta l’orizzonte ineffabile
e sterminato il destino, a chiunque,
dell’esistere, sterminato!
Ciò che lasciamo indietro
si strascica verso il buio,
ciò che ci attende è incomprensibile
compreso il momento che passa.
Io sono: eccomi! io sono,
solo in quest’ora debole,
ciò che decide: io sono
la linea che divide
il passato dal futuro.
Momento eterno dell’essere
che ti stabilisci nell’attimo,
sei tu la mia grazia, decidi.
DELL'OMBRA
Un giorno di primavera
vidi l'ombra di un'albatrella
addormentata sulla brughiera
come una timida agnella.
Era lontano il suo cuore
e stava sospeso nel cielo;
nel mezzo del raggiante sole
bruno, dentro un bruno velo.
Ella si godeva il vento;
solitaria si rimuoveva
per far quell'albero contento
di fiammelle, qua e là, ardeva.
Non aveva fretta o pena;
altro che di sentir mattino,
poi il suo meriggio, poi la sera
con il suo fioco camino.
Fra tante ombre che vanno
continuamente, all'ombra eterna,
e copron la terra d'inganno
adoravo quest'ombra ferma.
Cosí, talvolta, tra noi
scende questa mite apparenza,
che giace, e sembra che si annoi
nell'erba e nella pazienza.
Echi ermetici insieme a dinamiche pascoliane, invece (anche il De Robertis parlò di Pascoli a proposito di Betocchi), son presenti nella prossima lettura, estratta da Altre poesie del 1939: Il dormente. Questa magnifica lirica, direi di gusto elegiaco, mette in contemporaneità temporale la memoria personale di un sonno vissuto lungo un fiumiciattolo con la medesima esperienza vista dall'alto, da altri ignoti occhi. Dunque non sappiamo se egli fosse al momento sveglio o vegliante. Il poeta, insomma, vede se stesso addormentato dall'esterno, attorniato anzi avvolto dalla vita cosmica, nella quale infine si sciolgon le sue forme corporee. E anche qui, notiamo, è costante la presenza simbolica delle tenebre come pace eterna e logica conclusione - sentita con soave naturalezza. L'ombra in Betocchi non si disgiunge mai dalla sua istintiva radiosità.
IL DORMENTE
Io mi destai con un profondo
ricordo del mio sonno.
Dalla mia veglia guardavo
il mio corpo dormiente,
era giorno, era un chiaro
giorno silente.
Quando le sere d'estate
esalan profumate
tenebre sul fiume, un uomo
giace sopra la riva
addormentato dal suono
dell'onda viva.
Passano sopra il suo viso
l'ombre del paradiso
lunare, tra i flessuosi
salici e il lieve vento;
celano gridi amorosi
l'erbe d'argento.
Vento e prati fluttuando
muoiono con un blando
fiotto e là, presso il suo corpo,
come a un'isola viva
da un mare languido e smorto
il flutto arriva.
Presso il suo corpo si rompe
quell'ineffabil fonte;
e il suo respiro leggero
di creatura che dorme
scioglie nell'etereo cielo
azzurre forme.
Parlavamo di radiosità ma ancor meglio, per definire in toto la poetica betocchiana, sarebbe adottare l'opinione del De Robertis: "È un idillio scontento con solo le apparenze della felicità". Se ciò in generale calza alla sua produzione, questo non toglie, però, la sonorità impressionistica dei seguenti versi, aventi una forma metrica particolare: sono quattro cinquine di settenari con rime ABCBC, DEFEF, eccetera. Una vera dimostrazione di buone capacità tecniche, grazie alla quale ci sentiamo liberati in un sol colpo da tutte le contorsioni intellettualistiche moderne. Qualche precisazione lessicale per coglierne meglio il senso: la ''pruína'' è toscanismo per ''brina''; ''crócei'' vuol dire ''color del croco'', ovvero giallini; ''dolca'' sta per ''morbida''. La poesia s'intitola Pastorale.
PASTORALE
Al vento alla pruina
l'acqua rovina al bosco,
la bestia s'inacerba,
e s'arrovella al fosco
giorno, e s'indura, l'erba:
col cuor dove già inalba
come scialba lanterna
l'inverno, il pecoraro
col flauto amaro sverna
mandrie dal passo avaro.
Ed ora andranno i prati
di belati e di rosei
musi fiutanti incolmi,
e neri gli olmi ai crocei
albori, e bianchi i sommi
crinali: e dove inconca
la neve dolca al vento,
diran d'avere udita
della smarrita al tempo
d'estate ancor, la squilla.
Si diceva poc'anzi che l'ombra, la luce (come speranza ed anelito all'Assoluto) e la forte adesione del poeta al vigore della vita - una vita fatta di sacrificio e sofferenza: il fiume della vita, diremmo, rubando al Verga una sua famosa definizione - erano le caratteristiche di base della poetica betocchiana. Ma lo sono certamente anche gli uccelli, i tetti delle case a mo' di simbolo riassuntivo dell'operosità umana vista come derivazione divina (vedansi la famosa Dai tetti e Fraterno tetto), e lo sono pure la Luna, quasi onnipresente in quanto propaggine divina, come ancora le stagioni, sentite con animo arcaico. Bene: nel prossimo componimento, Un dolce pomeriggio d'inverno, potremo osservare un ulteriore elemento molto caro al poeta: le farfalle... o meglio la metamorfosi dei pensieri in impalpabili esserini policromi, avviluppati dalla luce di un sogno d'eternità.
UN DOLCE POMERIGGIO D'INVERNO
Un dolce pomeriggio d'inverno, dolce
perché la luce non era piú che una cosa
immutabile, non alba né tramonto,
i miei pensieri svanirono come molte
farfalle, nei giardini pieni di rose
che vivono di là, fuori del mondo.
Come povere farfalle, come quelle
semplici di primavera che sugli orti
volano innumerevoli gialle e bianche,
ecco se ne andavan via leggiere e belle,
ecco inseguivano i miei occhi assorti,
sempre piú in alto volavano mai stanche.
Tutte le forme diventavan farfalle
intanto, non c'era piú una cosa ferma
intorno a me, una tremolante luce
d'un altro mondo invadeva quella valle
dove io fuggivo, e con la sua voce eterna
cantava l'angelo che a Te mi conduce.
Le rondini andrebbe analizzata ed approfondita con l'ausilio di troppo tempo (anche perché proprio del tempo essa tratta) ma di tempo - ovvero di spazio - qui non ne vogliamo occupare materialmente troppo, per evitare di tediarvi. Essa costituisce, noteremo tuttavia, un esempio del Betocchi ermetico (cioè del Betocchi filosofo tra virgolette). Cosí, semplificando di molto le cose, suggeriremo che le rondini sono dei cerchi di vita inconsumata e dunque perfetta - il cerchio rappresentava per molte delle società mediterranee antiche la completezza, la perfezione della linea ininterrotta coniugante divinità, morte e vita -; le rondini sono, quindi, degli animali sacri o addirittura delle anime in senso cattolico, poiché godono del tempo assoluto, quello trascendente estraneo all'immanenza cronologica. Questi cerchi-anime, dunque, in quanto riassuntivi della vita e della ultravita, calano, guidati dal suono di campane divino, sui nostri cieli terreni e, assorbite le esperienze della vita materiale umana, tornano all'onda antica (cioè all'eternità).
LE RONDINI
Le rondini, bei cerchi della vita,
intatti e non vissuti,
senza che il tempo azzurro li soverchi,
son tempi in cui non vige una misura
sommersi dentro un suono di campane
che li innalza e li abbassa,
che forano e trapassano,
per ritornare fertili di vita
e privi di ricordi, a l'onda antica.
Ancora la luce riflessa della luna si appropria della visione urbana del poeta, che sente i propri pensieri sulle attese e gli eventi come diventar di vento. È un paesaggio dell'anima, questa Ora ad altre speranze, robusta e un tantino stonata pennellata ermetica dai nodi sintattici quanto meno difficili da intendere, se non propriamente irrisolvibili eccetto che intuitivamente. Comunque, per me che sono umbro (e al di là dei difetti del componimento), è troppo forte la tentazione di vedere, tramite gli occhi del poeta, gli antichi tetti delle nostre case, tanto simili a quelli toscani.
ORA AD ALTRE SPERANZE
Ora ad altre speranze ecco si leva
non veduta la luna
e il cieco sguardo mio di cruna in cruna
delle finestre mena
come a spente farfalle,
ed alle assurde mura
trasumanate come aperta valle
da un riflesso di luna.
E le attese e gli eventi
nell'alzato mio volto errano un poco
sostando e dubitando eguali al fioco
sospirare dei venti,
e in me è tutt'uno
l'animo e questo moto, incerto e bruno.
Il verbo ''giocondare'' (''giocare con giocondità'') potrebbe esprimere già di per sé la bambina sensibilità di questo poeta, che perfino Pier Paolo Pasolini definí come il possessore di una "Gioia tutta profana" coincidente con quella sacra. Questo verbo entra ad illuminare una deliziosa descrizione, in Piazza dei fanciulli la sera. Qui il labbro di pietra è l'orlo di una fontana di paese ricoperto di alghe, e il labbro dell'acqua è la superficie dello specchio acqueo della medesima. Solo che il cielo sceglie l'acqua per trasferirsi, aggiuntiva gioia, alla piazzetta festante, mentre l'ambigua luna può attendere senza turbare la serenità dei fanciulli.
PIAZZA DEI FANCIULLI LA SERA
Io arrivai in una piazza
colma di una cosa sovrana,
una bellissima fontana
e intorno un'allegria pazza.
Stava tra verdi aiole:
per viali di ghiaie fini
giocondavano bei bambini
e donne sedute al sole.
Verde il labbro di pietra
e il ridente labbro dell'acqua
fermo sulla riviera stracca,
in puro cielo s'invetra.
Tutto il resto è una bruna
ombra, sotto le logge invase
dal cielo rosso, l'alte case
sui tetti attendon la luna.
Ivi sembrava l'uomo
come una cosa troppo oscura,
di cui i bambini hanno paura,
belli gli chiedon perdono.
Incredulo davanti alla guerra? Forse piú: la rondine, solitamente latrice di speranze celesti, passa nel vuoto lasciato da alcune case frantumate e questa volta porta all'uomo soltanto rassegnazione davanti alla sua stoltezza. Una rondine nel vuoto della disperazione: Rovine, del 1947.
ROVINE
Non è vero che hanno distrutto
le case, non è vero:
solo è vero in quel muro diruto
l'avanzarsi del cielo
a piene mani, a pieno petto,
dove ignoti sognarono,
o vivendo sognare credettero,
quelli che son spariti...
Ora spetta all'ombra spezzata
il gioco d'altri tempi,
sopra i muri, nell'alba assolata,
imitarne gli incerti...
e nel vuoto alla rondine che passa.
Tutta la suggestione e la forza dei suoni sta nella prossima lirica, scritta nel 1932: L'ultimo carro. Per quanto riguarda il lessico, si tenga presente che l'aggettivo ''chiotto'' significa ''prudente'' e che il ''cavallo manritto'' è quello che sta alla destra della pariglia trascinante il carro.
L'ULTIMO CARRO
Prima che l'alba sfarfalli,
dentro un suono di sonagliere
l'ultimo carro a cavalli
passa, al grido del carrettiere.
Terribilmente giocondo
è questo suon di sonagliere
squillante nel buio mondo
al grido aiuh! del carrettiere.
Sveglia chi deve svegliare,
il can del giardino di rose,
il gallo che sa cantare,
le lavandaie, belle spose.
Entrando nella farina
sveglia il pane, fin dentro il forno,
squillasse in campi di brina,
di pane riempirebbe il mondo.
Passando a una casa gialla
che l'uomo dice inabitata
turba un'occulta farfalla
dentro un solaio addormentata.
Va il suo cavallo mancino
con una zampa chiotta chiotta:
sovra il lastrico, argentino
il cavallo manritto schiocca.
L'ultimo carro a cavalli
passa al grido del carrettiere,
con strepitosi sonagli,
avanti l'alba, in strade nere.
Della solitudine a mio avviso è il manifesto, o meglio la sintesi, dell'identità versificatrice ed esistenziale di Carlo Betocchi. La lascio come ultimo esempio e, prendendo a prestito la verace definizione della critica Laura Cioni, ve la presento come un tesoretto costruito di Parole limpide.
DELLA SOLITUDINE
Io non ho bisogno
che di te, solitudine;
alta, solenne, immortale,
dove piú nulla è sogno.
In questo deserto
attendo l'implacabile
venuta d'un'acqua viva
perché mi faccia a me certo.
Se trionfa il sole
o la luna impassibile
il loro lume fluisce
come vuole nel mio cuore.
E godo la terra
bruna, e l'indistruttibile
certezza delle sue cose
già nel mio cuore si serra:
e intendo che vita
è questa, e profondissima
luce irraggio sotto i cieli
colmi di pietà infinita.
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