jueves, 14 de julio de 2016

GIANPAOLO G. MASTROPASQUA [18.924]


Gianpaolo G. Mastropasqua

(Bari, Italia, 1980)
Médico y músico, vive migrante entre el puerto del Mediterráneo, la Alta Murgia y Andalucía. Hizo su debut con Silenzio con variazioni (2005) y publicó Andante dei frammenti perduti (2008), para el editor LietoColle. Creó y dirigió el "LietoColle Sur Tour" y editó con Anna Toscano y María B. Tolusso la antología Taggo e ritraggo.




Llama alquímica

Sobre la frente de la materia nunca detenida
que imperceptiblemente te oprime
como una arcaica madre obsesiva
yo bebo los albores de cada edad como
un perro callejero herido por las blasfemias
de los palacios, me hago el muerto
en tu olor a antimonio puro
para refugiarme en tu profecía
en el himno del ombligo mineral
remonto el cordón celeste de la sabiduría
furioso y mudo como Giordano en llamas.


Como alma fija

Me queda esta imagen rauca
clavada en equilibrios que nunca escribiré
y estos ojos de otoño, diseminados
en el florero, en una mañana sin espacios,
cuando ignoraba tus suicidios cotidianos
y no me importaba ser un piano
bajo tus dedos blandos como teclas negras:
has dejado este espejo, que cada noche
se encarna más, como alma fija.

Danzas de amor y duende, edición bilingüe italiano-español, traducción de Francesca Corrias y Julio Pavanetti, Enkuadres, Valencia, 2016




Fiamma alchemica

Sulla fronte della materia mai ferma
che impercettibilmente ti sovrasta
come un’arcaica madre ossessiva
io bevo gli albori di ogni età come
un randagio ferito dalle bestemmie
dei palazzi, mi fingo morto
nel tuo odore di antimonio puro
per rifugiarmi nella tua profezia
nell’inno dell’ombelico minerale
ripercorro il cordone celeste della sapienza
furioso e muto come il Giordano tra le fiamme.



Come anima fissa

Mi resta questa immagine rauca
conficcata in equilibri che non scriverò mai
e questi occhi d’autunno, dispersi
nel portafiori, in un mattino senza spazi,
quando ignoravo i tuoi suicidi quotidiani
e non importava che essere un pianoforte
nelle tue dita morbide come tasti neri:
hai lasciato questo specchio, che ogni notte
s’incarna di più, come anima fissa.



da "Adagio Limbico" del VIAGGIO SELVATICO INCOMPIUTO 


(la stanza selvatica) 

La stanza selvatica ha il corpo di guerriero 
e sulla fronte una medusa di nuvole fisse 
negli angoli assoluti si rincorrono bambini 
il sogno da latte finisce la primavera, 
nelle arcate serpeggiano sillabe, i trofei

intermittenti, per la deglutizione delle prede 
l'indigeno catturasogni ha la vista più lunga 
dell'uccello che è stato, eppure è cieco 
e canto resterà lì a contare le stelle… 
chi vince può cibarsi sull'altalena del buio 
o spingere il pianeta in un ciuffo meraviglia 
sul carro che supera la finzione del cielo 
e dondola nella crepa silenziosa di una culla 
nel Dio che accarezzando l'umana miccia 
saltò in aria per coprirci la testa dagli occhi. 


(la spiaggia) 

Si abbandonò in capovolta di clessidra 
sul fianco più estraneo del cielo 
sorvolò tre volte il capo danzante 
e si distese nel pensiero delle nubi, 
virò nella morsa dove il fiato cede 
nel giro nuvolare degli spiriti attinti 
fino al sudore centrale dei pianeti 
sparsi in briciole sul tavolo dell'azzardo; 
e vidi sfilare l'indicibile, le spose perenni 
il destino nudo nella cartapesta degli anni 
e dimenticai il mio nome selvatico, l'indirizzo 
delle vertebre, la sillaba immobile e ridente 
le generazioni fonetiche, le finzioni alsaziane 
e il pedale rampicante delle macchine umane. 


(la seduttrice) 

Si ciba di polvere e di tarli 
di vecchie caldaie di organici affanni 
va per mostri di carta e dimora 
la soffitta che nidifica ha più segreti 
dei suoi abitanti, li studia a volte 
pesa cellula per cella, giudica la fine 
misura la violenza e il genio, il gesto 
il fallo proteso nel cielo oracolare 
le mani da ultima suonatrice di silenzi 
dove per conquiste senili e glutee 
o fiati di versi per antri temporali 
s'involano le prede nel corpo sonoro 
la somma millenarie delle età sospese 
nell'atto che vita e morte sommerge. 


(piazza degli eroi) 

Ci trovammo nella piazza imbandita della sera 
nel nucleo di una tavola meccanica 
come tante posate volanti, come macchine scolpite 
nel capodanno preistorico della fame: cigolavano 
le moire dell'equilibrio, le muse strepitose 
del ferro, come lance definitive, come teoremi 
a orologeria, prima dell'ultimo canto nuziale 
vagavano a folle i mulini a vento, le imprese ruotanti 
di una storia che da un futuro voleva essere 
raccolta, raccontata, come una bimba! E scoppiava 
in lacrime d'argento, fiorivano i tarli argentini 
sfinivano nell'estasi come il diavolo del passo 
e smarrimmo l'alfabeto nella folgore cenerina 
ma la tecnica non bastò a disarmare il sogno 
la festa è un passaggio fossile, un furto della polvere 
un ronzino che acceca la corsa, una morte accesa. 


(una forma di murgia) 

L'antico ragazzo fiutò la piazza per correre 
incanalò il palo di folla e impallidì 
tutti erano rimasti indietro accecati: 
cominciò a muovere i pedali come petali 
ora a folle, ora dosando il gas con mestiere 
quando superò le case e afferrò l'arrivederci 
capì di aver cancellato il paese dalla nascita 
fu felice di andare dove attraversano le greggi 
o qualche vacca di nebbia dai segnali arrossati 
come le tempie quando incontrano un'uscita 
di murgia, quando cadono nelle rete 
degli alberi palafitte, quando avvistano 
il castello terragno appostato a mezz'aria, 
in dolce attesa, da noi un passo. 


(il vaso) 

Mondo è questa voce che toglie un fiato 
più dello spazio logico è il seme 
che scompare piantando la realtà nel suo vaso 
una rosa senza spine può piegarsi ai fatti 
il sangue punge sempre verso il basso 
l'ubriaco è già bagnato sull'orlo della sera. 
Escono come aghi dalla pelle punta 
girano i tacchi e rubano le scarpe al tempo 
le parole vanno vengono a carica lenta 
ci ridono pagliacci dalle stupide colonie 
ci fingono attori immensi come insetti 
le coppie si agganciano nei circuiti amorosi 
come quando non c'è più corrente 
e ci si muove appena, come nascosti 
nel rumore accecante di un labiale 
un atto di bruciante fissità 
dove ci si muore, per poco. 


(la bevuta) 

Quest'utile che corre come una lama 
scandita sulla parola in amore 
come la smorfia dei padri in vendita 
nelle vetrine altolocate della morte. 
Questa gloria filiale del macero 
che scardina gli avamposti delle cosce 
fino alla lacrima, fino all'ultima foce 
dove beve ogni conquista, ogni sangue civile. 
Quest'ombra che a giorno fatto si accompagna 
guardinga come un abisso epidermico, immota 
fino al giudizio della cellula, allo stato 
delle giunture urlanti, fino all'acrilico 
di una libertà impazzita, una zanzara, punto. 








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