Arturo Graf
(Atenas; 19 de enero de 1848 - Turín; 31 de mayo de 1913) fue un poeta italiano de ascendencia alemana.
Se educó en la universidad de Nápoles y luego fue profesor de literatura italiana en Roma hasta el año 1876, en que se le nombró profesor de la Universidad de Turín. Fundó el Giornale della letteratura italiana, y sus trabajos incluyen valiosas críticas literarias, aunque es mejor conocido como poeta. Sus libros de poesía —Poesie e novelle (1874) y Dopo il tramonto versi (1893)— le otorgaron un alto lugar entre los escritores líricos de su país.
Canciones
Cántame tus canciones,
tus esbeltas, desnudas canciones,
esas que se visten de menudas hojas verdes
y hojas rojas,
y hojas verdidoradas,
con cortezas resinosas
y pequeñas piedras pulidas por el agua.
Cántame tus canciones:
las de los delgados cielos azules,
de las nubes azules,
de las montañas azules.
Y las otras:
las de las aguas hechizadas
que se precipitan gritando por las rocas,
y aquellas en las que bandadas de alondras
levantan la mañana.
Y la canción de los hermosos caballos,
en la que se enumeran los caballos por sus colores,
y sus nombres
y sus orígenes y linajes.
Y la canción de los pájaros, las aves
que se nombran según sus plumajes
y sus vuelos y sus melodías.
Y la canción de las lluvias,
de las lluvias inmemoriales. Y de las otras,
las frívolas y danzarinas.
Y la honda canción de las noches
que hablan doradas palabras
que rebrillan por instantes,
las pacientes noches de larga memoria.
La vetta
Avanti! pochi altri passi
e poi sarem sulla vetta;
avanti pur senza fretta,
per mezzo agli sterpi e ai sassi.
La vetta è là, tutta sgombra,
tutta serena nel sole,
lungi da quando si duole,
fuor dalle nebbie e dall'ombra.
Anima inquieta e stanca,
non ti rivolgere indietro:
in basso il vapore tetro,
in alto la luce bianca.
Voi, cui travaglia ed opprime
un cruccio greve e nascoso,
ponete mente: riposo
non è se non sulle cime.
AL LETTORE
Chiedi tu donde mova il disperato
Dolor che m’urge e mi dilania il verso?
Dalla terra e dal mar, dal turbinato
Aere, dal cielo luminoso e terso;
Dall’ignivomo sol, dall’increato
Bujo, dall’infinito ove sommerso
Tutto disvien, dall’eterno passato,
Dall’eterno avvenir, dall’universo;
Dai morti innumerati che in arcano
Sonno per sempre giacciono, dai vivi
Innumerati che piangono invano;
Da quest’anima mia, da questo core
Ebbro d’odio e d’amor, che il sangue a rivi
Perde e bramoso di morir non muore.
ALLORO
Ramoscello d’alloro,
Odoroso, lucente,
La tua fogliuzza fa ammattir la gente
Quanto riso di donna, o abbaglio d’oro.
O fogliolina acuta,
O verde fogliolina,
Acuta tu mi par come una spina,
Verde come l’assenzio e la cicuta.
PENSIERO FULMINEO
Talora, quando più secreta e folta
La notte incombe e l’emisfero tace.
Io, da vana deluso ombra di pace,
Gli sparsi miei pensier chiamo a raccolta.
E la speranza suscito che giace
Sotto le antiche ceneri sepolta,
E di tesser mi studio anco una volta
Bella vita il sottil sogno fallace.
Ma d’improvviso, sì ch’io non l’avverto,
Piomba dall’alto sulla mia follia
Fulminando il pensier dell’infinito:
Dissipa il frale e dilicato ordito,
E lascia dentro a me l’anima mia
Fatta un gorgo di mar, fatta un deserto.
TRAMONTO
Muore il giorno; la muta aria non alita,
L’orizzonte s’annuvola e si perde;
Brune sul cielo si disegnan l’arbori,
S’addensan l’ombre sull’immenso verde.
Freddo è il mio core; intorno a me s’abbujano
Le minacce del mondo e della sorte;
Di rimembranze il mio pensier rigurgita;
Trista è l’anima mia sino alla morte.
CICUTA
E te pur ama il generoso aprile,
Virulenta cicuta. Il sol, che infonde
La virtù nella vite e nelle bionde
Messi, t’educa e non ti tiene a vile.
Ti guardo e rido: oh strana cosa! e donde
Trasse Natura il tossico sottile
Entro il gracile stelo e nel gentile
Frastaglio inciso delle verdi fronde?
Ti guardo, e l’egro cor mi si dischiude.
E mi guizza un pensier dentro la mente
Siccome serpe in gorgo di palude:
Ti sia propizio il sole ed il veleno
Sia benedetto della tua semente,
Che d’ogni mal più rio guarisce a pieno.
SAGGIO DI COMMENTO
AL PETRARCA
«La vita fugge e non s’arresta un’ora:»
Messer Francesco, la sentenza è vera.
Tempo fu ch’io men dolsi e che all’aurora
Troppo vicina mi parea la sera.
«La vita fugge e non s’arresta un’ora:»
Messer Francesco, è pur verace il grido;
Ma lasciatela andare alla malora
Or che del suo fuggir m’allegro e rido.
O NATURA!
Velata dea che formi, agiti, domi,
Con odii arcani e con arcani amori,
Io non intendo ciò che tu lavori,
Non trovo all’opre tue condegni nomi.
Tu sotto al piè del pellegrin, tra’ fiori,
Attorci il serpe, esizïali aromi
Dalle corolle esali, in vaghi pomi
Stilli il velen d’elaborati umori.
Tu sirti occulte alla volante nave
Prepari, e giù dai lucidi Trïoni
Sciogli improvviso e ruinoso il vento;
Tu formi un petto candido e soave,
E dentro ascoso ad albergar vi poni
Un cor nato agli obbrobrii e al tradimento.
MARE INTERNO
L’anima mia superba è fatta un mare
Vasto, profondo, senza suon, senz’ira;
Si stende il flutto quanto l’occhio gira,
Né terra alcuna all’orizzonte appare.
Dall’incurvato ciel nell’onde amare
La fredda luna con terror si mira,
E mai sopr’esse l’aquilon non spira
Suscitator di fortunose gare.
Giù nel profondo, in tenebroso orrore,
Chiude gli avanzi d’un perduto mondo,
Occulta l’opre dell’iniqua sorte;
Città sommerse, inabissate prore,
Inutili tesor buttati al fondo,
Tutta una infinità di cose morte.
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