Dino Frescobaldi
Dino Frescobaldi (Florencia, 1271 - 1316, aproximadamente) fue un poeta italiano.
De carácter, muy parecido a Dante Alighieri, es considerado uno de los mayores exponentes de stilnovisti: ha sido mencionado y elogiado por Pietro Bembo y Boccaccio como muy famoso poeta stilnovisti. Hijo de Messer Lambertuccio Frescobaldi, descendiente de la familia rica florentina Frescobaldi (ocupada en el comercio).
Siendo muy apreciado por sus contemporáneos, sus sonetos y sus canciones han estado circulando en gran número.
Dino Frescobaldi fue el padre del poeta Matteo Frescobaldi.
En el lugar donde brilla la estrella
En el lugar donde brilla la estrella
que con su luz renueva los deseos,
se halla la floresta de los mártires
de quienes Amor me habla sin cesar.
Allí se hizo a mi mente esclava,
allí conviene que mire mi luz,
allí sacó mis suspiros miedosos
esta despiadada joven hermosa.
Piedad no encuentra allí a su señora,
ni humildad se librará de desdén,
si el tormento no produce la muerte.
De nada vale ya pedir socorro
a la que para mí busca martirios,
mostrando que eso poco le importa.
Incluido en Antología esencial de la poesía italiana (Editorial Espasa Calpe, Madrid, 1999, selecc. de Antonio Colinas, trad. de Carlos Alvar).
Es ésta la joven por amor guiada
Es ésta la joven por amor guiada,
que entra por la vista a cuantos la ven;
ésta es la dama llena de mercedes,
en quien se asientan todas las virtudes.
Sonriente le viene Amor delante
mostrándole el alto puesto que ocupa;
cuando llega a donde Humildad la llama,
parece que ella mata a los vicios.
Cuando Amor la induce a saludar,
honestamente mueve la mirada:
produce el deseo que al alma habla.
Su luz sólo va adonde hay nobleza
y sus contrarios se alejan huyendo
lejos de esta joven hermosa y bella.
Incluido en Antología esencial de la poesía italiana (Editorial Espasa Calpe, Madrid, 1999, selecc. de Antonio Colinas, varios trad.).
Dino Frescobaldi
Canzoni e sonetti
Edizione di riferimento
La poesia lirica del Duecento, UTET, Torino 1968
I poeti del «dolce stil novo» a cura di Carlo Salinari, classici TEA, Milano 1998
I
Quest’è la giovanetta ch’Amor guida,
ch’entra per li occhi a ciascun che la vede;
quest’è la donna piena di merzede,
in cui ogne vertù bella si fida.
Vielle dinanzi Amor, che par che rida,
mostrando ’l gran valor dov’ella siede;
e quando giunge ov’umiltà la chiede,
par che per lei ogni vizio s’uccida.
E quando a salutar Amor la ’nduce,
onestamente li occhi move alquanto,
che danno quel disio che ci favella.
Sol dov’è nobilta gira sua luce,
el su’ contraro fuggendo altrettanto,
questa pietosa giovanetta bella.
II
Un’alta stella di nova bellezza,
che del sol ci to’ l’ombra la sua luce,
nel ciel d’Amor di tanta virtù luce,
che m’innamora de la sua chiarezza.
E poi si trova di tanta ferezza,
vedendo come nel cor mi traluce,
c’ha preso, con que’ raggi ch’ella ’nduce,
nel fermamento la maggior altezza.
E come donna questa nova stella
sembianti fa che ’l mi’ viver le spiace
e per disdegno cotanto è salita.
Amor, che ne la mente mi favella,
del lume di costei saette face
e segno fa de la mia poca vita.
III
Per tanto pianger quanto li occhi fanno,
lasso!, faranno l’altra gente accorta
dell’aspra pena che lo mi’ cor porta
d’i rëi colpi che fedito l’hanno.
Ch’e’ mie’ dolenti spiriti, che vanno
pietà caendo, che per loro è morta,
fuor de la labbia sbigottita e smorta
partirsi vinti, e ritornar non sanno.
Quest’è quel pianto che fa li occhi tristi
e la mia mente paurosa e vile
per la pietà che di se stessa prende.
Oi spïetata saetta e sottile,
che per mezzo del fianco il cor m’apristi,
com’è ben morto chi ’l tu’ colpo attende!
IV
No spero di trovar giammai pietate
negli occhi di costei, tant’è leggiadra.
Questa si fece per me sottil ladra,
ché ’l cor mi tolse in sua giovane etate.
Trasse Amor poi di sua nova biltate
fere saette in disdegnosa quadra
dice la mente, che non è bugiadra,
che per mezzo del fianco son passate.
I’ non ritrovo lor, ma ’l colpo aperto,
con una boce che sovente grida:
«Merzé, donna crudel, giovane e bella!»
Amor mi dice, che per lei favella:
«Novo tormento conven che t’uccida,
poi non se’ morto per quel c’hai soferto».
V
Donna, dagli occhi tuoi par che si mova
un lume che mi passa entro la mente:
e quando egli è con lei, par che sovente
si metta nel disio ched e’ sì trova.
Di lui v’appare una figura nova
che si fa loba e trovasi possente,
e segnoria vi ten sì aspramente,
ch’ogni ferezza al cor par che vi piova.
Pietà non v’è né mercé né calere,
per che si fa crudel com’ella puote
e disdegnosa della vita mia.
Li spirti, che nol posson sofferire,
ciascun si tien d’aver maggior virtute
qual può dinanz’a le’ partirsi via.
VI
Amor, se tu se’ vago di costei,
tu segui ben la più diritta via:
ché sol per acquistar sua segnoria
ti fa’ crudel vie più ch’i’ non vorrei.
E poi, s’i’ veggio te venir con lei,
tu apri tosto un arco di Soria,
e per la fine della vita mia
ti metti a saettar per li occhi miei.
Queste saette giungor di tal forza,
che par ch’ogni mi’ spirito si doglia,
cotanto trae diritto, presto e forte.
Così di quell’ onde ’l disio mi sforza,
mi conven sofferir contra mia voglia,
tremando per paura de la morte.
VII
Tanta è l’angoscia ch’i’ nel cor mi trovo,
donde la mente tremando sospira,
che spesse volte in sul penser mi tira,
nel qual pensando assa’ lagrime piovo.
Ché quell’aversità ch’i’ allor movo
mi mostra il tempo ove morte gira,
e la vertù che la vita disira
veggio distrugger co’ martir ch’i’ provo.
Questi martiri, che nel cor passaro,
provando lor virtù naturalmente,
venner di tanta forza e sì possente,
che li miei spiriti tutti tremaro;
po’ non sostenner, ché m’abandonaro,
lasso!, fuggendo sbigottitamente.
VIII
Poscia ch’io veggio l’anima partita
di ciascheuna dolorosa asprezza,
dirò come la mia nova vaghezza
mi tiene in dolce e in soave vita.
Ché per lei m’è nella mente salita
una donna di gaia giovanezza,
che luce il lume della sua bellezza
come stella dïana o margherita.
Questa mi pon co le suo man nel core
un gentiletto spirito soave,
che piglia poi la segnoria d’Amore.
Questo ha d’ogni mi’ spirito la chiave,
accompagnato di tanto valore,
che star non pò con lui spirito grave.
IX
Questa altissima stella, che si vede
col su’ bel lume, ma’ non m’abbandona:
costei mi die’ chi del su’ ciel mi dona
quanto di grazia ’l mi’ ’ntelletto chiede.
E ’l novo dardo che ’n questa man siede
porta dolcezza a chi di me ragiona:
in altra guis’amor sa che persona
non fedì mai né fedirà né fiede.
Per ché merzé aver così mi piace
con questa nuova leggiadria ch’i’ porto,
dove mai crudeltà neuna giace.
Entro ’n quel punto’ogni vizio fu morto
ch’io tolsi lume di cotanta pace,
ed amor sa, chéd io ’l ne feci accorto.
X
In quella parte ove luce la stella
che del su’ lume dà novi disiri
si trova la foresta de’ martiri
di cui Amor cotanto mi favella.
Quivi fu la mia mente fatt’ancella,
quivi conven che la mia luce miri,
quivi trae fuor di paura sospiri
questa spietata giovanetta bella.
Pietà non vi si truova segnoria
né umiltà contra disdegno sale,
se del tormento morte non si cria.
Chiamar soccorso di merzé non vale
a questa che martiri per me tria,
mostrando che di ciò poco le cale.
XI
Deh, giovanetta! de’ begli occhi tuoi,
che mostran pace ovunque tu li giri,
come può far Amor criar martiri
sì dispietati ch’uccidan altrui?
Come che v’entri prima, e’ n’esce poi
coperto, ch’uom non è che fiso ’l miri;
di saette fasciato e di sospiri,
il cuor mi taglia co’ riei colpi suoi.
L’anima fugge, però che non crede
che nel gravoso mal ched i’ sostegno
aggi’ alcuna speranza di merzede.
Vedi a che disperato punto i’ vegno!
Ch’i’ son colui che la sua morte vede,
nata di crudeltà e di disdegno.
XII
Giovane, che così leggiadramente
mi fai di te sì ragionar d’amore,
tanto mi piace ’l tu’ gentil valore
quant’e’ mi par d’ogn’altro più possente:
ché, imaginando tua beltà sovente,
nel tempo ch’ogni mia pesanza more,
tu pigli tanta segnoria nel core,
che tu ne fai maravigliar la mente;
poi vi riposi, così come quella
che truova ferma ne la sua vaghezza
ciascuna parte nella mia persona.
Dicemi Amor: — Questa giovane bella
ti segnoreggia con tanta pianezza,
ch’ogni grave tormento t’abandona —.
XIII
La foga di quell’arco, che s’aperse
per questa donna co le man d’Amore,
si chiuse poi, ond’ io sento nel core
fitto un quadrello che Morte i scoperse:
per che di fuor la mia labbia coperse
d’oscura qualità, sì che’l dolore
si mostra ben quant’è, nel mi’ colore,
e che, giugnendo, l’anima soferse.
Ne la presta percossa di costui,
che fece allore la mente tremare,
la sconsolata fu d’angoscia involta:
come dirittamente vide trare
quel che piangendo mi consuma poi,
e volle che Pietà le fosse tolta!
XIV
Quant’e’ nel meo lamentar sento doglia
e pena molt’altrove!
Tanta, ch’io non so dove
i’ offendesse Amore, che ’l mi face.
Ancor che sua potenza a molti doglia,
i’ son quelli in cu’ piove
fere gravezze e nove,
ch’ogni pesanza in loro esser li piace.
E quel disio de l’amorosa voglia
ch’i’ porto non si move!
Dunque, le dure prove
d’Amor mi tolgon molt’ond’i’ ho pace:
ché de la mente non più ch’ella soglia
Morte mi si rimove,
la qual mia vita smove
d’ogni valor, ché lei strugg’e disface.
I’ ho per lei nel cor tanta paura
e tant’angoscia e sì grave dolore,
che la sua potestate
m’ha tolta libertate
di vedere ove la mia donna sia.
E qual de li miei spiriti la dura,
e qual per troppa gravitate more
in questa nimistate,
e qual per sua viltate
esce di me: per campar fugge via.
XV
L’alma mia trist’è seguitando ’l core
in biasimare Amore,
sforzandosi di dir la pena mia:
com’i’ son fora uscito di valore,
[merzé di quel sign]ore,
per cui servir par ched i’ nato sia;
e com’ la mente sospirando more,
vedendosi disnore
d’aver voluta mai sua compagnia.
Questo mi fa perch’i’ ’l chiamo signore
e voglio servidore
esser di lui ovunque il cor disia.
Omai vedete s’egli è cos’altera
e s’egli è cosa da sperare in lui,
e s’egli è cosa ch’abbia in sé virtute!
Io credo questo, sì come colui
che l’ha provato: ch’e’ vol sua salute
crudelemente inver’ di lui sia fera.
XVI
Poscia che dir conviemmi ciò ch’io sento
e ch’io sostegno faticosamente
per la vita dolente
che piangendo a la morte mi conduce,
qual sia e quanto il mio crudel tormento,
dirollo a voi, mia donna, solamente,
cui paurosamente
guardar disio: ch’e’ negli occhi mi luce!
Se questa doglia ch’a parlar m’induce
può sostener che non mi uccida in tanto,
comincerò ’l mio pianto:
ché so che l’ascoltar vi fia soave
udendo quel ch’Amor per voi mi face,
se non vi fosse grave
la fine, ov’io attendo d’aver pace.
Io sento piover nella mente mia
Amor quelle bellezze che ’n voi vede,
e ’l disio, che vi siede,
crescer martiri con la sua vaghezza;
ché, conoscendo che bellezza sia,
e’ s’innamora, che piacervi crede:
così nella sua fede
lo ’nganna Amore e la vostra ferezza!
Ché s’e’ ’l penser vi tragge, a mia gravezza,
questo move il dolor che vi contenta;
e sed e’ fior m’allenta
(non perch’i’ ’l senta, onde poco mi vale),
voi disdegnate, sì ch’Amor vi guata,
a cui tanto ne cale,
che mai non posa sì v’ha consolata.
Il consolar ch’e’ fa la vostra vista
è che per mezzo il fianco m’apre e fende,
e quivi tanto attende
che ’l cuor convien che rimanga scoperto;
poi si dilunga, ch’e’ valore acquista:
gridando forte un suo dur’arco ’ntende
e la saetta prende,
talché d’uccidermi e’ cred’esser certo;
ed apre verso questo fianco aperto,
dicendo: — Fuggi! — all’anima, — ché sai
che campar nol potrai —.
Ma ella attende il suo crudel fedire,
e fascia il cuor nel punto ch’e’ saetta,
di quel forte disire
cui non uccide colpo di saetta.
Poi che nel cuor la percossa m’è giunta,
ed io rimango così nella vita
com’uom da cui partita
fosse ogn’altra vertù forte e sicura,
perché dinanzi a l’affilata punta,
credendo ch’allor sia la mia finita,
ciascuna s’è fuggita:
così facesse quella ch’ancor dura!
La qual di me altressì poco cura
in consumarmi quanto faccia Amore:
ché per lo suo valore
i’ posso dir ched io or non sia morto,
che sarei fuor del male ch’io sostegno,
dove m’è fatto torto,
ché l’umiltà vi fa crescer disdegno.
Dunque, se l’aspro spirito che guida
questa spietata guerra e faticosa
vi vede disdegnosa
di quanto cheggio per aver diletto,
come così nella morte si fida?
La quale esser non può tanto gravosa,
se la vita è noiosa,
che non sia pace: ed io così l’aspetto.
Se ascolterete, nel vostro ’ntelletto
voi udirete, che sentir mi pare,
una voce chiamare
che parla con pietà, vint’e tremando,
e viene a voi per pace di colui
che la morte aspettando
vede la fine de’ martiri sui.
XVII
Per gir verso la spera, la finice
si scalda sì, che poi accende fiamma
in loco ov’ella infiamma,
sì che Natura vince vita allora.
Così per ver, ché ’l meo pensier lo dice,
mi mena Amor verso sì fatta fiamma,
che ’l cor già se ne ’nfiamma,
tanto che Morte lui prende e colora
de lo su’ frutt’ altero ch’innamora.
Tant’ è cocente, che chi ’l sente chiaro
trova radice d’ogne stato amaro.
Egli ’l mi par sentir già nella mente
venuto per vertù d’est’ ugelletta,
la quale uom non alletta
né altro, fuor ch’Amor, che·llei ’ntenda.
Ferr’ ha spicciato sì, possibilmente,
che, dentro stando, tempera saetta,
onde poi insaetta
le mie vertù, sì che ’l martìr m’aprenda.
Ed io, che temo nel finir m’offenda,
chero Pietate al cui richiamo i’ sono,
ed a costei nel mi’ finir perdono.
Di ciò che la mia vita è nimistate,
lo su’ bello sdegnar qual vuol la mira,
priegol, poi che mi tira
in su la morte, che mi renda pace:
ché mi mostra un pensier molte fïate,
il qual d’ogni altro più di dolor gira,
com’ io le sono in ira,
sì che tremando pianger me ne face.
Lo spirito d’amor che nel cor giace,
per cunfortarmi mi dice: «Tu déi
amar la morte per piacer di lei».
Allor ch’i’ odo che per su’ diletto
e’ mi convien provar quel falso punto
ov’ i’ son quasi giunto,
sì che mi mostra un doloroso affanno,
dico che mosse fuor del su’ ’ntelletto
l’ardente lancia che m’ha così punto
dritto nel fianco appunto
ed in quel loco ove’ sospiri stanno;
li quali sbigottiti or se ne vanno
davanti a quella per merzé di cui,
poi ch’io la vidi, innamorato fui.
Deh, canzonetta, i’ vo’ che tu celata
tenghi costei con le parole c’hai,
ovunque tu girai:
perché mi par ch’a torto faccia offesa,
non vo’ che tua cagion ne sia ripresa.
XVIII
Un sol penser che mi ven ne la mente
mi dà con su’ parlar tanta paura,
che ’l cor non si assicura
di volere ascoltar quant’e’ ragiona;
perch’e’ mi move, parlando sovente,
una battaglia forte, aspra e dura,
che sì crudel mi dura,
ch’io cangio vista, e ardir m’abandona.
Ché ’l primo colpo che quivi si dona
riceve il petto nella parte manca
da le parole che ’l penser saetta;
la prima de le qual si fa sì franca,
che giugne equal con virtù di saetta,
dicendo al cor: — Tu perdi quella gioia,
onde conven che la tua vita moia —.
In questo dir truov’io tanta fermezza,
che dove nascer suol conforto in pria
or piu tosto si cria
quel che mi fa di vita sperar morte:
e quivi cresce con tanta ferezza
questa speranza, che così m’è ria,
ch’ogn’altra fugge via
vint’e tremando, e questa reman forte.
E se le mie vertù fosser accorte
a far di loro scudo di merzede,
vienvi un disdegno che lo spezza e taglia;
e questi è que’ che duramente fiede,
che dice a la seconda aspra battaglia:
— I’ tolgo pace a tutti tuoi disiri
e dò lor forza di crudel martiri —.
La terza vien così fera parlando,
e di tal crudeltà segnoria porta,
ch’assai più mi sconforta
che non faria di morir la speranza.
Questa mi dice così ragionando:
— Vedi Pietà, ch’io la ti reco scorta,
la qual fedita e morta
fu nel partir della tua bella amanza.
In te convien che cresca ogni pesanza
tanto, quanto ogni tuo ben fu ’l disio
ch’era fermato nella sua bellezza;
ché quel piacer che prima il cor t’aprio
soavemente co la sua dolcezza,
così come si mise umìle e piano,
or disdegnoso s’è fatto lontano —.
Canzon, di quello onde molto mi duole
tu porterai novella
a quella giovanetta donna bella,
che più bell’è che ’l sole.
Tu la vedrai disdegnosa ridendo
render grazia a colui
che co’ martiri suoi
mi fa così per lei morir piangendo.
XIX
Voi che piangete nello stato amaro,
dov’ ogni ben v’è caro
come la luce nella parte oscura,
e che ponete nel dir vostro chiaro
ch’oltre di voi o paro
esser non può in sì crudel vita e dura,
leggete me, se l’ardir v’assicura,
ch’io son mandata solamente a voi
da parte di colui
a cui non viene diletto di pace,
perché tanto li piace
che voi pensiate a lui, anzi ch’ei muoia,
quanto li ’ncresce della vostra noia.
E’ fu menato con un sol disire
in loco ove sentire
ognora li convien novi martiri:
non già per voglia di su’ poco ardire,
ch’ei non credea seguire
la pena ove convien ch’egli or si giri;
la qual non vuol che i dolenti sospiri
vadano in parte ove Pietà li senta,
cotanto le contenta
ch’ei provi de l’asprezze del diserto,
ov’ei morrà per certo,
ch’ell’ è foresta ove conven ch’om vada
a guida di leon fuor d’ogni strada.
Io era dentro ancor nella sua mente,
quando primieramente
gli apparve un de’ leon della foresta;
il qual, giugnendo niquitosamente,
quivi subitamente
gridando verso lui volse la testa.
Nel cuor li mise allor sì gran tempesta
quella spietata e paurosa fiera,
che di colà dov’ iera
partir lo fe’ con doloroso pianto;
e così il cacciò tanto
ch’in una torre bella e alta e forte
il mise per paura della morte.
Poi che fu giunto, credendo campare,
cominciò a chiamare:
«Aiutami, Pietà, ch’io non sia morto!»
Ma e’ si vide tosto incontro fare
tre, che ciascuno atare
volean quello che prima l’avea scorto.
Per che ciascun fu di tenerlo accorto,
tanto che di lassù scese donzella
gaia giovane bella,
dicendo: — Quel disio che ti conduce
mosse da la mia luce,
onde convien ch’io vendichi l’offesa
dove ti venne così folle intesa —.
Negli occhi suoi gittò tanto splendore,
che non ebbe valore
di ritenerlo, sì che non s’avide
come per mezzo aperto gli fue il core
per man di quel segnore
che con tormento ogni riposo uccide.
Ma poi, com’uom che d’altro secol riede,
vil di paura e di pietà pensoso,
destòssi pauroso,
e vide che costei s’era partita;
ma trovò la ferita
ove ognor cresce di lei nova amanza,
che vi conduce ogni crudel pesanza.
XX
Morte avversara, poi ch’io son contento
di tua venuta, vieni,
e non m’aver, perch’ io ti prieghi, a sdegno,
né tanto a vil perch’ io sia doloroso.
Ben vedi che di piagner non allento,
e tu mi ci pur tieni
segnato del tuo nero e scuro segno,
però che sai che ’l viver m’è noioso.
Io son sicuro, e fui già pauroso,
di doverti veder, crudele, in faccia;
ed ora, se m’abraccia
da tua parte il pensier, il bascio in bocca.
[ma più ch’ei soglia, la mia mente t]occa
Amor per quella che meco s’adorna,
e dicendo va e torna
infin che io ragioni un poco a lui;
poi ne verrà costui - insieme ed ella,
e l’un per servo e l’altra per ancella.
Morte, lo giorno ch’io gli occhi levai
a quella che’l disio
naturalmente mi formò entro al core,
compita, al mio disio, d’ogni biltate,
immantinente ch’io la risguardai,
nello ’ntelletto mio
contento fue lo spirito d’amore
sol di veder la sua nobilitate.
Ma la sua nova e salvaggia etate,
crudele e lenta contro a mia fermezza,
per la sua giovinezza
m’ha tempo, in vanità girando, tolto.
Né io mi son però a dietro vòlto;
ma con quel lume ch’io l’accesi al viso,
mi son piangendo miso
a dir sì basso a la sua grande altura,
che, s’a merzede giovinetta è fera,
i sdegni vinca l’umile manera.
Io la trovai della mia mente donna
così subitamente
come Natura mi die’ sentimento,
e canoscenza Amore ed intelletto,
poi gli occhi miei, quando la fecior donna,
sì amorosamente
guardaro in lei, veggendo a compimento
ogni beltate senza alcun difetto,
che li condusse a pianger lo diletto
sì dolcemente, che la vita aperse
e lo cor non sofferse.
Diedersi a pianger, veggendo la vista
ch’i’ ho perduta, e ciascun ora acquista
sì leggermente com’ i’ daria ’l sangue,
onde notrica l’angue
ch’alla punta del cor Amor mi tene,
e io potessi ben vedere un’ora
come la mente mia quando l’adora!
La mente mia, trafitta e dirubata
da’ ladri miei pensieri,
che m’han promesso il tempo e non atteso,
veggendosi così distrutta, piange;
e la speranza vede scapigliata
sopra ’l disio ch’ieri
d’angoscia cadde tramortito e steso,
né far li può sentire Amor che ’l tange.
E se Pietà ch’agli occhi mi ripiange
di quella natural mi contradice
. . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . .
io sarò più possente d’ella, intanto
ch’un’ora, nel mio pianto,
mi manderò diritto al cor la spada:
ov’io sogiacerò una volta morto,
poiché vivendo ne fo mille a torto.
Morte, a cui dico? Donna mi disdegna,
né la vita mi vale,
sì m’e rivolto, ciò ch’io chieg[g]io, incontra;
e la cagion qual sia no·lla vi celo:
i’ ho seguito Amor sott’ una insegna,
provando bene e male,
e tutte cose mi son sute contra
poi ch’io vidi a madonna il bruno e ’l velo.
Par che ’nfluenza di malvagio cielo
irasse il tempo e la sua giuventute,
tollendole salute,
acciò ch’un’ora ben no·ll’incontrasse.
Ma se Natura o Dio considerasse
li sofferenti, come far solea,
beato quel sarea
ched e’ potesse tanto ben pensare
quant’ al levar - del vel mi daria ’n sorte
colui ch’è scarso sol di darmi morte.
XXI
a Verzellino
Al vostro dir, che d’amor mi favella,
rispondut’ho, perch’io ne sono preso.
Dico che, se ’l valletto è saggio e ’nteso,
lasci la donna e prenda la pulzella:
ché, s’ell’è gaia giovanetta e bella,
dé ’l core aver più caldamente acceso;
e se la donna l’ama e mira fiso,
esser può vaga, ma non sì com’ella:
perciò che la pulcella, c’ha lo core
mosso ad amare, è fatta disïosa,
ch’altro non chiede che ’l disio d’amore;
non può esser così donna ch’è sposa.
Questo mi mostra el dolce mio segnore
ch’andar mi fa con la mente pensosa.
CANZONE PROBABILMENTE AUTENTICA
Edizione di riferimento
Rimatori del Dolce stil novo, A cura di Luigi di Benedetto, Bari, Gius. Laterza & figli Tipografi-editori-librai 1939 - xvii
XXII
Amore, i’ veggio ben che tua virtute,
che m’innamora cosí coralmente,
non è tanto possente,
che faccia questa donna esser pietosa.
Ché sol per acquistare una salute,
da gli occhi suoi i’ porto nella mente
quel disio, che sovente
mi fa di morte l’anima pensosa;
e questa disdegnosa,
che porta quel ne gli occhi ond’ io son vago,
gia non mi mira si ch’ i’ possa dire
che, per lo mio disire,
ella li mova dove i raggi suoi
vegnan per pace dei martiri tuoi.
Questo non è, ch’ella non vuol sentire
de la tua gran possanza ov’ io mi trovo,
ne la vita ch’ io provo,
per te, crudele! e per lei, poca e vile.
Ché s’ tu volessi mia ragion seguire
od a’ tar cosi ben com’ io la movo,
le lagrime ch’ io piovo
la fariano esser cortese ed umile,
poi non se’ si gentile,
udendo ben com’ io l’ho per mia donna,
che tu dicessi de la sua ferezza.
O s’ell’è in tanta altezza,
ch’ ella non vuol di me la segnoria,
e tu non déi voler la morte mia.
Ch’allor che tu venisti ne la mente,
per quella segnoria che tu l’ hai data,
tu la m’avei lodata,
sí ch’ io per te la chiesi donna pui.
Or ch’ ’io veggio le mie virtú spente
e questa donna vèr me adirata,
ed è sí disdegnata
ch’ io non veggio pietá ne gli occhi sui,
tu, sí come colui
che le’ mi desti, a’tar mi déi da lei;
che per sua guida venisti nel care,
allor ch’ogni valore
mi tolse l’ombra d’una bella roba
onde venne vestita quella loba.
Canzon, tu muovi piena di paura,
come figura de la stretta mente;
isbigottitamente
ti metti per voler mia ragion dire.
Or ti piaccia di prender tanto ardire
dinanzi a quella a cui tu te ne vai,
che quando la vedrai
tu dichi: Donna, se mercé t’è ’n noia,
la vita di costui conven che moia.
Indice Biblioteca Progetto Dolce stil nuovo © 1996 - Tutti i diritti sono riservati. Biblioteca dei Classici italiani di Giuseppe Bonghi
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