lunes, 30 de marzo de 2015

SILVIO PELLICO [15.328] Poeta de Italia


Silvio Pellico

Silvio Pellico (Saluzzo, Piamonte, 25 de junio de 1789 - Turín, 31 de enero de 1854), patriota, escritor y poeta italiano.

Pasa su niñez en Pinerolo y Turín, bajo la tutela de un sacerdote llamado Manavella. Con diez años de edad compone una tragedia inspirada en una traducción de los poemas de Ossian. Tras la boda de su hermana gemela Rosina con un primo materno en Lyon, pasa a residir en esa ciudad, dedicándose por cuatro años al estudio de la literatura Francesa. Vuelve en 1810 a Milán, donde trabaja como profesor de Francés en el Collegio degli Orfani Militari.

Alí conoce a Vincenzo Monti y Ugo Foscolo, y comienza a escribir a principios de 1812, especialmente para el teatro, creando tragedias formalmente contra los clásicos, pero más románticas desde el punto de vista del contenido. Escribe dos tragedias en verso, "Laodamia" y "Francesca da Rimini" y poco después "Eufemio di Messina". En 1814 es maestro en la casa del conde L. Porro-Lambertenghi. Tiene relación con personajes de la cultura extranjera como Madame de Stael y Friedrich von Schlegel e italiana como Federico Confalonieri, Cesare Romagnosi y Giovanni Berchet. En este círculo se cultivan ideas de tendencia liberal y de revuelta para conseguir la independencia nacional: en este clima de 1818 funda la revista Il Conciliatore.

Pellico y gran parte de sus amigos forman parte de la sociedad secreta de la Carbonería y pueden considerarse "Federales"; ese es el motivo por el que en 1820 la policía austríaca detiene a Pellico, Piero Maroncelli y otros miembros y los conducen a la prisión de Santa Margherita. Es trasladado a Venecia en febrero de 1821, donde compone varios Cantiche y las tragedias Ester d'Engaddi e Iginici d'Asti.

Es condenado a muerte en febrero de 1822, aunque la pena es conmutada por cuarenta años de dura prisión, y el siguiente abril es encerrado en Špilberk, Brünn (hoy Brno).

La dura experiencia carcelaria concluye en 1830 por un indulto imperial y su repatriación, y constituye el tema de la obra autobiográfica "Le mie prigioni", obra que alcanza gran popularidad. Se dice que esta obra causó más daño a Austria que una batalla perdida.

Pellico publica sucesivamente las tragedias : "Gismonda da Mendrisio", "Leoniero", "Erodiade", "Tommaso Moro" y "Corradino", el libro moral "I doveri degli uomini" y "Cantiche" de género romántico.

Debido a problemas familiares y físicos interrumpe su producción literaria en el último año de su vida y trabaja como secretario de la casa de la Marquesa de Barolo. Muere en 1854, y es enterrado en el Camposanto de Turín.

Aunque muchos consideran mediocre sus tragedias, Le mie prigioni con su directa simpleza narrativa, le hace ganar fama internacional.

Obra

Laodamia
Francesca da Rimini
Eufemio di Messina
Ester d'Engaddi
Iginici d'Asti
Le mie prigioni
Gismonda da Mendrisio
Leoniero
Erodiade
Tommaso Moro
Corradino
I doveri degli uomini
Cantiche



A MENTE - Silvio Pellico

En esta bella composición, el poeta italiano Silvio Pellico (1798-1854) proclama la noble libertad de la mente humana, a la cual nadie puede encadenar. Mientras estuvo preso, Pellico escribió un libro conmovedor y admirable que se ha hecho famoso, Mis Prisiones.

¿Qué importa que triste gima
Mi pecho desventurado, 
Si el alma que Dios me ha dado 
Nadie puede encadenar? 
De sus frágiles prisiones 
Sale rápida la mente, 
Ve el pasado y el presente, 
Cíelo abarca y tierra y mar.

Yo no soy el cuerpo esclavo 
Que apenas vida recibe; 
Yo soy alma que en Dios vive, 
Yo soy libre en el pensar. 
Yo soy un ser que atrevido, 
Cual águila allá en el cielo, 
Mira en torno, y en su vuelo 
Puede el mundo contemplar.

Ser invisible desciende 
De los míos al retiro, 
En su atmósfera respiro, 
Siento su mal y su bien.
La faz de seres distantes 
Veo, y escucho su acento; 
De mil pechos el contento 
Conmueve el mío también.

Saben que, si lejos moro, 
No impide amarlos mi cuita, 
Que junto a ellos palpita 
Mi oprimido corazón. 
Que sólo contra la carne 
El tormento se revela, 
Y que libre el alma vuela 
Sin obstáculo a su acción.

Loor eterno al rey del cielo, 
Al Ser que me dio esta mente 
Que le concibe y le siente, 
Que le puede hablar y oír. 
En vano, pues soy espíritu, 
Darás, Muerte, el golpe fiero, 
Espíritu es Dios, y espero 
Que en su seno he de vivir.






POESIE
INEDITE
DI
SILVIO PELLICO



AI LETTORI.

Avendo alquanto coltivato la poesia sin da' giovenili anni, e trattone dolcezza, non so cessare d'amarla, e di lasciarmi talvolta da essa ispirare scrivendo i miei più intimi pensieri e sentimenti. Così son nati i versi che oggi m'avventuro di pubblicare, sebbene sia consapevole essere in questi il buon desiderio molto maggiore del merito, e sebbene soglia dirsi nell'età nostra, giovare che gli scrittori italiani gareggiano piuttosto in moltiplicare le buone prose, che in arricchire il tesoro della poesia patria, già cotanto abbondante ed egregio. Non condanno siffatta opinione a favore delle buone prose, le quali pur vorrei vedere aumentarsi ogni giorno nella nostra letteratura, ma dimando grazia anche per le poetiche produzioni. Se svolgono affetti lodevoli e verità religiose e civili, le impressioni che fanno su gli animi possono riuscire benefiche al pari d'impressioni destate da libri morali d'altro genere.

Non poca parte de' versi che do alla luce si riferisce precipuamente alle mie vicende, a' miei dolori, alle mie speranze, alle consolazioni recatemi dalla Fede. Mi sono chiesto se non era temerità il dipingere sì lungamente me stesso, e forse ell'è temerità infatti. M'è nondimeno sembrato che la pittura del mio cuore acquistasse un rilievo dagli oggetti nobilissimi che v'ho associato, e segnatamente dal più sublime di tutti - Iddio.

Sospetto che avrei fatto meglio a parlare di Lui, di Religione, di Virtù, senza tanto a me medesimo por mente, ma non ho saputo. Il benigno lettore gradirà con indulgenza questa confessione: ho argomento di sperarlo, sapendo che altra volta già m'è stato generalmente perdonato il rappresentare con tutta fiducia l'interno dell'anima mia.


LA MIA GIOVENTÙ.

Cor mundum crea in me, Deus.
(Ps. 50).

Lamento sui fuggiti anni primieri,
Che fecondi di speme Iddio mi dava,
E di ricchi d'amore alti pensieri!

Tra giubili ed affanni io m'agitava,
Ed incessanti studi, e bramosia
Di sollevarmi dalla turba ignava;

E spesso dentro al cor parola udìa
Che diceami dell'uom sublimi cose,
Tali che d'esser uomo insuperbìa.

Pupille aver credea sì generose
Il mio intelletto, che dovesser tutte
Schiudersi a lui le verità nascose;

E di ragion nelle più forti lutte
Io mi scagliava indomito; sognante
Che sempre indagin lumi eccelsi frutte.

Quella vita arditissima ed amante
Di scïenza e di gloria e di giustizia
Alzarmi imprometteva a gioie sante.

Nè sol fremeva dell'altrui nequizia,
Ma quando reo me stesso io discopriva,
L'ore mi s'avvolgean d'onta e mestizia.

Poi dal perturbamento io risalíva
A proposti elevati ed a preghiere,
Me concitando a carità più viva.

Perocchè m'avvedea ch'uom possedere
Stima non può di se medesmo e pace,
S'ei non calca del Bel le vie sincere.

Ma allor che fulger più parea la face
Di mia virtù, vi si mescea repente
D'innato orgoglio il lucicar fallace.

E allor Dio si scostava da mia mente,
E a gravi rischi mi traea baldanza,
Ed infelice er'io novellamente.

Se così vissi in lunga titubanza,
Ond'or vergogno, ah! tu pur sai, mio Dio,
Che tremenda cingeami ostil possanza!

Sfavillante d'ingegno il secol mio,
Ma da irreligiose ire insanito,
Parlava audace, ed ascoltaval'io.

E perocchè tra' suoi sofismi ordito
Pur tralucea qualche pregevol lampo,
Spesso da quelli io mi sentìa irretito.

Egli imprecando ogni maligno inciampo
Sciogliea della ragion laudi stupende,
Ma insiem menava di bestemmie vampo.

Ed io, come colui che intento pende
Da labbra eloquentissime e divine,
E ogni lor detto all'alma gli s'apprende,

Meditando del secol le dottrine,
Inclinava i miei sensi alcuna volta
Di servil riverenza entro il confine.

Tardi vid'io ch'a indegne colpe avvolta
Era sua sapïenza, e vidi tardi
Ch'ei debaccava per superbia stolta.

Trasvolaron frattanto i dì gagliardi
Della mia giovinezza, e sovra mille
Splendide larve io posto avea gli sguardi;

E nulla oprai che d'alta luce brille!
E si sprecar fra inani desidèri
Dell'alma mia bollente le faville!

Lamento sui fuggiti anni primieri
Che d'eccelse speranze ebbi fecondi,
E di ricchi d'amore alti pensieri!

Ma sien grazie al Signor che, ne' profondi
Delirii miei, pur non sorrisi io mai
Agl'inimici suoi più furibondi:

Sempre attraverso tutte nebbie, i rai
Del Vangel mi venian racconsolando;
Sempre la Croce occultamente amai.

Ed il maggior mio gaudio era allorquando
In una chiesa io stava, i dì beati
Di mia credente infanzia rammentando:

Que' dì pieni di fede, in che insegnati
Dal caro mi venian labbro materno
I portenti onde al ciel siamo appellati!

Di nuovo fean di me poscia governo
La incostanza, gli esempi, ed il timore
Dell'altrui vile e tracotante scherno;

E l'ira tua mertai per tanto errore:
Ma gl'indelebili anni che passaro
Ritesser non m'è dato, o mio Signore!

Presentarti non posso altro riparo
Che duolo e preci e fè nel divo sangue,
Di cui non fosti sulla terra avaro

Per chiunque a' tuoi piè pentito langue.



A DIO.

Et anima mea illi vivet.
(Ps 21).

D'uopo ho d'amarti, e d'uopo ho che tu m'ami,
O tu che per amar mi desti un cuore!
Son mal fermi quaggiù tutti i legami,
Tu sei solo immutabile, o Signore!
S'amo creati cuor, fa ch'io rïami
In essi te che mi comandi amore:
Se d'altri il braccio mi sostiene alquanto,
Sostenga essi con me tuo braccio santo.

Ov'anco intorno a me sien petti cari,
No, mai bastar non ponno al mio conforto;
Spesso agitato da cordogli amari
Lo sguardo mio sui lor sembianti io porto;
Ma del mio mal tosto li bramo ignari,
E compongo a letizia il viso smorto,
E so che anch'essi per affetto eguale
Celan sovente del dolor lo strale.

E più volte ho provato in petti umani
D'espandere l'arcana angoscia mia,
E come a Giobbe i consiglier suoi vani,
In me quelli accrescean melanconia;
E chi i gemiti miei diceva insani,
Chi crollava la testa e non capìa,
Chi fingea compatir, mentre in secreto
Io lo scorgea de' miei tormenti lieto.

Sì ch'or per la pietà che agli uni io deggio,
Perchè tenera brama han del mio bene,
Ora per non esportili al vil dileggio
Dell'alme giubilanti alle mie pene,
Poco agli uomini parlo, e poco alleggio
Tra loro il duol che in me dominio tiene;
Ma sfogar pur sospiro i lutti miei,
E tu, Signor, mio confidente sei!

Fa ch'io ti senta sempre a me vicino:
Troppo la solitudin m'addolora!
Posar vo' il cor sovra il tuo cor divino
Voglio dirti i miei sensi a ciascun'ora!
Traggimi in qual pur sia fiero cammino,
Purchè teco io respiri, e teco io mora:
Tutti i dolori a te d'accanto accetto,
Di viverti discaro io sol rigetto.

Per aver l'amor tuo che far degg'io?
Pregar soltanto? Ah no, il pregar non basta!
Debbo immagine in terra esser di Dio,
Debbo luttar contro a natura guasta,
Debbo aver di giustizia alto desìo,
Debbo non abborrir chi mi contrasta,
Debbo amar tutti, anco i più rei nemici,
Ed, ove il possa, oprar che sien felici.

Donami quell'amor, ma il dona insieme
A chi meco vïaggia sulla terra:
Fra gl'inamanti cuori il cuor mio geme
E impicciolisce, e sua virtù s'atterra;
Fra i malignanti cuori il cuor mio freme,
E orgoglio oppone a orgoglio, e guerra a guerra
Fra gli odii altrui l'anima mia è infeconda;
D'alti esempi d'amor, deh, la circonda!

Con te, Signor, con te stringo alleanza:
Perdonerò a' mortali, a me perdona;
Amerò tutti, perchè han tua sembianza,
Perch'io son tua fattura, amor mi dona;
Amerò tutti, ma con più esultanza
Chi fra le braccia tue più s'abbandona;
Amerò tutti, ma con più fervore
Chi più simile al tuo mi mostra il core!

Amar vogl'io, di quell'amor che avvampa
In te, e ne' tuoi più nobili viventi,
Di quell'amor che da' rei lacci scampa,
Di quell'amor che regge infra i tormenti,
Di quell'amor che all'universo è lampa
Nella chiesa infallibil de' redenti,
Di quell'amor sì pio, sì ver, sì forte,
Che abbella e vita, e gioie, e strazi, e morte!



DIO AMORE.

Domine, qui amas animas.
(Sap. 11,27.)


Amo, e sovra il cor mio palpitò il core
Del mio Diletto, ed era - ah! la tremante
Lingua osa dirlo appena - era il Signore!

Il Signor che di gloria sfavillante
Regna ne' cieli, e sua delizia è pure
Il picciol uomo in questa valle errante!

Ed attonite il mirano le pure
Intelligenze scendere ammantato
A questo erede di colpe e sciagure,

Ed il povero verme lacerato
Sanar colle sue mani, e a tutti i mondi
Ridir sua gioia, se da tale è amato.

Io lo vidi per baratri profondi
Movermi incontro, e gridar dolcemente:
«Perchè cotanto al mio desìo t'ascondi?»

E più e più appressavasi, e ridente
Più e più del suo viso era il fulgore,
E n'arsi ed arderonne eternamente.

Amo, e sovra il cor mio palpitò il core
Del mio Diletto, ed era - ah sì! il proclamo
All'universo in faccia - era il Signore!

Io lo vidi, il conobbi, ei m'ama, io l'amo!



MARIA.

Fac ut ardeat cor meum.
(Stab.)

Amo, e sovra il cor mio col nome santo
Sta del Signor quel d'una Donna impresso
Quel della Vergin che a Lui siede accanto!

Quel di Colei che gloria è del suo sesso!
Quel di Colei ch'anima avea sì bella,
Ch'a sue cure Dio volle esser commesso!

E bambin s'appendeva a sua mammella,
Ed ha i merti di lei co' suoi contesti,
E l'alzò dov'è a noi propizia stella!

Salve, o Maria! Tu con Gesù stringesti
Fra le tue braccia tutti noi mortali;
Tu per fratello il Redentor ne desti.

Su me pur, su me pur tue celestiali
Pupille scintillaron di materna
Pietà ineffabil, sin da' miei natali.

E a quel Figliuol che terra e ciel governa
Per me chiedesti e vai chiedendo aïta,
Sì, ch'io pur giunga alla sua pace eterna.

Ne' giorni più infelici di mia vita
L'invisibil tua man mi terse il pianto;
Ognor t'han miei rimorsi impietosita.

Amo, e sovra il cor mio porto col santo
Nome di Dio quel di Maria stampato!
Quel della Donna che a Lui siede accanto!

Della Madre che il Figlio ha per me dato!



L'UOMO.

Omia possum in eo qui me confortat.
(Philipp. 4, 13)

Capir non può l'umano spirto quale
Fosse dell'uom la prima, alta natura,
Pria che i suoi giorni avvelenasse il male.

Ma di natia grandezza un resto dura
Pur d'Adam nel nipote sventurato,
Che un Dio, piucchè una belva, in sè affigura.

Quel corrucciarsi del suo abbietto stato
È ad un tempo alterigia e sentimento
Ch'ei pel fango terren non fu creato.

Giocondo del suo pascolo è l'armento,
E se rugge il leon, rugge per fame,
E quand'è sazio, anch'ei posa contento.

Solo il mortal, benchè ogni senso sbrame,
E si sforzi a letizia, ode una voce
Che in cor gli grida: - L'ore tue son grame!

Sempre muta pensier, sempre lo cuoce
Uopo sfrenato di scïenza o possa,
Sempre una spina a sue calcagna nuoce.

Solo fra gli animali ei pur dall'ossa
De' cari estinti aspetta vita, e crede
Sovrastar gioie e danni oltre alla fossa.

In ogni secol l'uom si vanta erede
D'avito senno e cresciutissime arti,
Ed egualmente sitibondo incede.

Ambisce ragunar tutti i cosparti
Lumi dell'universo, e farsi Iddio,
E rifuggongli quei da cento parti.

Agogna fama, e lo ravvolge obblio,
Sanità cerca, e infermità l'abbatte,
Sa di peccare, e vorrebb'esser pio.

Contr'altri, contra sè freme e combatte,
Vuol parer dignitoso ed assennato,
E il premon fantasie luride e matte.

Egli è un astro smarrito ed oscurato
Che di sua prisca gloria un raggio serba,
E volge a rallumarsi ogni conato.

Egli è una cosa angelica e superba,
Egli è un Nabucodonosor del cielo,
Dannato co' giumenti a pascer l'erba.

Sull'intelletto suo s'è steso un velo,
Ch'ei maledice ed agita, e attraverso
Scorge il tesor perduto ond'è sì anelo.

Come offes'egli il Re dell'universo?
Qual fu l'arbor vietata ch'egli ha tocca?
Sin quando in mezzo a' vermi andrà disperso?

Basti che mentre di giustizia scocca
L'ineluttabil folgore sull'uomo,
Sull'uom misericordia anco trabocca.

Basti che sì da colpa ei non è domo,
Che per mano di Dio non debba pure
Frangere il giogo, e avere in ciel rinomo.

Basti ch'ei fra ignominie e fra sciagure
Sta grande e conscio di virtù divine,
E gli destan rossor vizi e lordure.

Ei molto ignora, ma le sue rovine
Attestan quella origin ch'egli avea,
E suda a restaurarle insino al fine;

E abborre l'angiol vil che il seducea,
L'angiolo vil che invano ognor gli grida:
«Nulla tu sei che argilla stolta e rea!»

Taci, bugiardo spirto! Iddio m'affida:
Ei non m'ha tolto, come a te, l'amore:
Uom si fe' perch'io 'l veda ed abbial guida.

Servo a lui son, ma sono a te signore;
Mal cangi astutamente e viso e manto,
Per trarmi fra tuoi schiavi al tuo dolore.

Mal di filosofia t'usurpi il vanto,
Per insegnarmi il tuo esecrando scherno
Sull'alte mire del tre volte Santo!

Io caddi al par di te dal regno eterno,
Ma non sì basso; e se mi curvo al suolo,
Non è per invocar fango ed inferno,

Bensì lui, che raddurmi al ciel può solo!



LA REDENZIONE.

Bibite ex eo omnes.
(Matth. 26,27.)

Uom, chi sei? Non t'inganni l'argilla
Ov'hai stigma d'obbrobrio e di morte.
In quel fral maledetto sfavilla
Una luce che a Dio somigliò.
Spaventosa e sublime parola!
Dio nell'uom crea di luce uno spirto,
Che dovunque Dio s'alzi trasvola,
Che l'abbraccia, che in lui tutto può.

Antichissima colpa ed oscura
Dal felice cospetto del Padre
Quell'altissima un dì creatura
Discacciò, preda a vermi e dolor.
Disputar colle belve la terra
L'uom fu visto, alle belve agguagliato;
Gli elementi gli mossero guerra,
Nulla il vinse: egli grande era ancor.

Ma più grande il fe' guardo d'amore
Ch'ei pentito osò volgere al cielo:
Da quel guardo fu preso il Signore,
Scese un giorno, e coll'uomo s'unì.
Non fu tolta alla colpa ogni pena
Per giudizio ineffabil del Santo,
Ma la coppa del duol fu ripiena
Di quel Dio che coll'uomo patì.

Da quel giorno s'inchina al mortale
Ogni mente che inchinisi a Dio,
Perch'entrambe con palpito eguale
Condivisero gaudio e martìr.
Da quel giorno gli spirti del cielo,
Cui straniera fu sempre sventura,
Santa invidia portaro all'anelo
Che per Dio può con gioia morir.

Dal suo abisso l'eterno perduto
Leva il capo, e con perfido ghigno
Grida: - Vieni, o tu forte caduto!
A me vieni, io de' forti son re!
E il fellon nega un Dio salvatore;
Ma il mortale a quell'empio risponde:
- Sento ignota virtù nel dolore,
Ciò mi svela che il Provvido v'è!

Sì, v'è Dio, l'adorabile, il forte!
Fatto l'uom a sua immagine avea:
Ei dell'uom meritevol di morte
Fessi immagine, e a sè il rïunì.
Oh magnanimo, a tanta bassezza
Sceso sei per restarne vicino!
Più non nuoce, no, morte, se spezza
L'incantesmo che a te ne rapì.

Oh mio Dio! più di morte, crudele
È il dolor che dividemi il core,
Ma il dolor convertì l'infedele,
Anco i giusti migliora il dolor.
Vero è il fatto, innegabil, tremendo:
Non v'è in terra virtù senza pianto.
Ecco il seno: ah! ch'io t'ami piangendo!
Ecco il lacera, il lacera ancor!

Benchè al misero umano intelletto
Sollevar non sia dato quel velo,
Onde piace a colui ch'è perfetto
Di sue vie le cagioni coprir,
Pur traspar sapïenza divina,
Tra la nube dell'alto mistero,
In quel lutto che l'anime affina,
In quel Dio che per noi vuol morir;

In quel nobile amor d'un fratello
Che patisce per empi fratelli;
In quel gran, di giustizia, modello
Che ad un tempo è increato e mortal!
In quel senno che sembra follia,
Ed è stimolo a somme virtudi,
Che qual ombra fugò idolatria,
Che fra tutti i nemici preval!



LA CROCE.

Confidite: ego vici mundum!
(Ioh. c. 16.)

E chi ingannato non sariasi quando
All'inesperto giovane intelletto
Tal si volgea drappello venerando
Per alta fama ed eloquente affetto,
Che virtù promettendo, ed appellando
A sublimanti indagini ogni petto,
Dicea: «Siam nati a illuminar la terra,
A tutte ipocrisie movendo guerra!»

Qual età vide mai zelo cotanto
D'ardenti ingegni, or concitati all'ira
Contro menzogna, or concitati al pianto
Sulle stoltezze in che il mortal delira?
Sì che spesso il lor dir quel grido santo
Parea che il cielo a' suoi profeti ispira,
Onde riscosse da letargo indegno,
Movan le genti di giustizia al regno!

Tonerà in quanti secoli fien dati;
Alla palestra degli spirti umani,
Tonerà il giusto contro i danni oprati
Da' fratelli perversi e dagl'insani;
E quel tonar perenne i cor bennati
Da ignobil opra tener può lontani,
E più li infiamma od infiammar dovria
A sacrifizi, a onore, a cortesia.

Ma sciagura sui popoli e sui regi
Quando frammisti a nobili pensieri
Potentissima scuola alza dispregi
Sovra la fonte degli eterni veri!
Sciagura sugli stessi animi egregi
Che allor di luce esser vorrian forieri!
Del vaneggiar d'illustre scuola tersi
Arduo a loro medesmi è rimanersi.

Ed in simile tempo io son vissuto!
Famosi audaci avean deriso l'are,
E affascinata dallo scherno astuto
Prendea quelli la turba a idolatrare;
Bello parve ostentar disdegno arguto
Verso chi preci a Cristo osasse alzare,
E più d'un per viltà vituperava
Quell'Evangel ch'ei pur nel cor portava,

Io dentro al cor portava l'Evangelo,
Nè bestemmie contr'esso unqua avventai;
Ma perchè s'irrideano e preci e zelo,
Non curanza di Dio spesso mostrai,
E agguagliato agli immemori del cielo,
Plausi e piaceri e vanità anelai;
E pur nell'alma ognor udia una voce,
Che dicea: «Dove vai? Riedi alla Croce!

«Riedi alla Croce! mi dicea; sì sforza
Calunnia indarno di tenerla a vile:
La Croce sol gl'indegni fochi ammorza,
La Croce sol fa l'uom grande e gentile,
La Croce sol dà all'intelletto forza
Di diventare all'Uomo Iddio simìle;
Se ipocriti talor stanno a' suoi piedi,
Non fuggirla perciò: gemine, e riedi!

«La Croce altro non è ch'alta dottrina
Di generosi e giusti sacrifici;
La forza d'affrontar doglie e rovina
Per giovare a' tuoi cari e a' tuoi nemici;
L'ardir congiunto ad amistà divina;
La virtù che nel cielo ha sue radici.
Chi per la Croce, ov'ei non sia demente,
Meraviglia ed ossequio e amor non sente?

«E se tu vedi ciò ch'ell'è, se l'ami,
Perchè di lei vilmente arrossirai?
Perchè, se il travïato empia la chiami,
All'impudente voce arriderai?
Di lui spregia e compiangi i ghigni infami,
Nè incodardir, sotto agli obbrobrii mai:
Della Croce magnanimo seguace,
Dimostra quanta in abbracciarla hai pace.

«Dimostra che la Croce a chi davvero
Suoi pregi indaghi, scema ogni amarezza;
Dimostra col tuo oprar, non esser vero
Ch'ella guidi a torpore ed a fiacchezza;
Dimostra che alto fa l'uman pensiero,
Che a tutti i grandi e forti atti lo avvezza;
Dimostra che se ride all'ignorante,
Pur del nobil sapere è sempre amante!

«Pari ad ogni miglior vantata scuola
La Croce insegna dignità ed amore;
Ma in lei sol v'è possanza di parola
Che inforzi, e persüada, e appuri il cuore;
Unica le angosciate alme consola,
Unica abbellir puote anco il dolore:
Ogni scuola miglior tituba e illude,
Dubbii ed error la Croce sola esclude».

Tal mi sonava in cor voce gagliarda,
Or è gran tempo, e s'io non l'obbedìa,
Del mio spirto esitanza era infingarda,
E di rapidi, lieti anni malìa;
La retta via scernendo, io la bugiarda
Con secreti rimorsi ognor seguìa:
Mesto or che tanto resistessi al vero,
Miro la Croce - e in sue promesse io spero!



GLI ANGELI.

Qui facis angelos tuos spiritus.
(Ps. 103).

Con un sol cenno, è ver, l'Onnipossente
Può governar gl'innumerati mondi,
Scevro d'ausilio di creata mente;

Ma più degno è di lui ch'ami e fecondi
L'universo d'angelici Intelletti,
Di cui l'opra sue grandi opre secondi.

Ei così volle, e spirti a lui soggetti
Adempion suoi decreti in ogni loco,
Quali a premiar, quali a punire eletti.

L'Angiol del Sol, da quel beante foco
Ai circostanti globi è fatto legge,
E della luce incantali col gioco.

Ed ogni astro ha uno spirito che il regge,
Od hanne molti, giusta ch'ivi è bello
Esser vario de' duci il santo gregge.

La nostra terra di sventure ostello,
Ostello è pur di squadre celestiali,
Onde scempio non facciane il rubello.

Per fraterna pietà si fean coll'ali
Agli occhi vel, lunge l'acciar rotando
Ai cacciati quaggiù primi mortali.

E d'Adamo fu l'Angiol, che allorquando
Reo lo mirò - «Non disperar! gli disse,
«L'Eterno puoi placar, te umilïando!»

Poscia ogni volta che la colpa afflisse
Cuori che si pentiano, il Signor tosto
Di consolarli ad uno spirto indisse.

Chi al fido Abramo che sul rogo ha posto
Il caro figlio ed il coltel già snuda,
La man rattiene? Un Cherubin nascosto.

E quando l'infelice Agar di cruda
Sete col figlio langue entro il deserto,
Dio fa che l'acque un Angiolo dischiuda.

De' dolci Genii ognor s'accrebbe il merto
Di quest'esule argilla a giovamento,
Per cui sapean che Cristo avria sofferto.

Noi vediam nel soave accorgimento
Di Rafael (perchè Tobia giungesse
D'ogni più cara brama al compimento)

L'amor de' nostri Genii: in lor le stesse
Ardono industri fiamme generose
Per l'alme peregrine a lor commesse.

E più lieti n'avvampan, dacchè impose
L'Eterno a Gabriello il gran messaggio,
E Maria «la tua ancella ecco!» rispose.

In quel bel dì le sfere tutte omaggio
Le prestaro, e degli Angioli reìna
Brillò una Donna di terren lignaggio!

Qual fu la gioia lor quando in meschina
Stalla videro nato il Dio lattante
Al sen della Mortal, fatta Divina!

Oh felice lo stuolo vigilante
De' pastori che l'inno udiron primi,
Nuncio alla terra del celeste Infante!

Godo in pensar che allor fra que' sublimi
Angioli avevi loco, Angiolo mio,
Tu che guidarmi or degna cura estimi.

Tu l'hai veduto quell'amante Iddio
Pender bambin fra le materne braccia,
E già per me il pregavi, e t'esaudìo!

E poi seguisti di Gesù ogni traccia
Pel cammin della vita, e poi vedesti
Sul fero legno sua languente faccia,

E di dolor sui falli miei piangesti!



II.

L'Angiolo! Oh amabil creatura! Un Ente
Tutto bellezza, e intelligenza e amore,
Che tutto legge nell'eternamente!

L'uom qual angiol saria se affrontatore
Della sconfitta sua stato non fosse,
Bandiera alzando contro al suo Fattore.

Ma il reo di sua stoltizia addolorasse,
E lagrime spargendo si sommise,
E Dio intese sue preci, e si commosse.

Del mortale a custodia un Angiol mise,
Che lo guidi e consoli, e ognor ripeta:
«Tieni a salute le pupille fise».

Dal giorno poi che nostra afflitta creta
Iddio venne a vestire ed a noi diessi,
Dolorando e morendo, esempio e meta,

Portando noi del divin sangue impressi
Sulla fronte i caratteri possenti,
Più invidia non ci fan gli Angioli istessi.

Angioli siam noi pur, benchè gementi
In questo passeggier regno di morte:
Gesù nobilitò nostri tormenti!

Perdermi ancor potrei; ma la mia sorte
Fidata venne ad un guerrier del cielo:
Ei mi regge e difende con man forte.

L'Angiol che per mio bene arde di zelo
Amo, e cerco, ed invoco, e benedico,
E pur di poco amarlo io mi querelo.

Ei fra' creati fu il mio primo amico!
Il Genio che svolgea ne' miei prim'anni
Del Bel l'amore, ond'oggi il cor nutrico!

Il confidente de' secreti affanni!
L'incanto che i pensier m'ha raddolciti!
Il braccio che strappommi a crudi inganni!

Oh tutti voi, che da dolor colpiti
Gemete in questa valle, abbiate spene
Ne' tutelari Spirti a voi largiti!

Io troppo spesso ad amistà terrene
Volli appoggiarmi, ed eran pochi i fidi
Che davver s'attristasser di mie pene.

I più m'amavan per sè stessi, e vidi
Taluni rinnegarmi, e perfid'eco
Far contra me di vil calunnia a' gridi.

Ed io, folle, piangea! - Ma quand'io meco
Sentìa il celeste amico mio verace,
L'angosciato mio core effondea seco,

Ed ei benigno v'istillava pace!



III.

Angiol mio, dove sei? Mai dal mio fianco
Non ti partir, che s'appo me non t'odo,
Tu sai quanto al ben far divenga io stanco.

Di vane inquïetudini mi rodo,
Se a me incessantemente non favelli,
E ai vili penso, e d'abborrirli godo.

Ottienmi ch'io perdonar sappia ai felli,
Ed opri ognor secondo te, secondo
L'orme de' miei più nobili fratelli.

Gareggia cogli altr'Angioli che al mondo
Offron nelle guidate anime forti
D'ardue virtù spettacolo giocondo.

Perchè ne' dì lunghissimi che assorti
Vissi in prigion, mi sfavillò sì grande
La dolce carità de' tuoi conforti?

Perchè tratto m'hai poscia infra ammirande
Anime care, ond'una al guardo mio
Raggi con te di Paradiso espande?

Perchè in me suscitasti alto desìo
D'obbedire a quell'una, e perchè festi
Ch'ella a me dir curasse: «Amiamo Iddio»?

Grazie, grazie, Angiol mio, de' manifesti
Segni di fratellanza! ah sì, tu m'ami!
Tu vuoi condurmi a giubili celesti!

Tu in guise inenarrabili mi chiami,
Per me paventi della colpa i lutti,
E mi sveli d'inferno i lacci infami.

Salve, bell'Angiol mio! salvete tutti,
Angioli tutelanti l'universo,
Perch'egli a Dio suprema gloria frutti!

Quanti siete v'imploro, a fin che immerso
Non vada alcun d'infra gli amati miei
Nella voragin dello stuol perverso!

E te precipuo invoco, Angiol, che sei
Protettor delle belle Itale rive,
Difendi il popol mio da influssi rei!

Tuoni del Campidoglio in sul declive
Sì possente la voce della Chiesa,
Che salvatrice a tutte genti arrive!

E la face crudel della contesa
Fra le varie contrade Itale spegni,
E ferva ognuna al comun bene intesa!

E dell'alma Penisola i bei regni
Di dura signoria non giaccian preda,
Ne' di plebei sovvertitori ingegni!

Ad ogni alta virtù l'Italo creda!
Ogni grazia da Dio l'Italo speri!
E credendo e sperando ami, e proceda

Alla conquista degli eterni veri.









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