lunes, 30 de marzo de 2015

ALFONSO GUIDA [15.329] Poeta de Italia


Alfonso Guida 

(San Mauro Forte, Matera, Italia, 1973)

En 1998, con la colección “Il sogno, la follia, l'altra morte” (Laboratorio delle Arti, Milano), ganó el Premio Especial Opera Prima Dario Bellezza. En 2002 ganó el Montale con la plaquette “Le spoglie divise (Quindici stanze per Rocco Scotellaro)”.

En 2011 publicó una colección “Il dono dell'occhio” (Poiesis editrice), Premio Notari finalista de 2012. Sempre del 2012 è il lungo poema “Irpinia” (Poiesis editrice).

Varias plaquettes publicadas hasta ahora:  “Via Crucis”, “ Note di terapia”, “ Nous ne sommes pas les derniers”, esta último inspirado en la serie del mismo nombre del pintor Zoran Music.

Sus poemas han aparecido en diversas antologías y revistas italianas, como "Poesía". Varios autores han estudiado sus escritos: desde Cucchi a Calandrone, de Aldo Nove a Franco Arminio.

Ha profundizado en particular la obra de poetas como Darío Bellezza, Amelia Rosselli y Paul Celan. En noviembre de 2013 publicó “A ogni passo del sempre” (Nino Aragno editore). De Junio ​​2014 es la colección de madrigales “L'acqua al cervello è una foglia” (Lietocolle).




LENTAMENTE SUBE DESDE LO OSCURO LA HORA
del río desbordado. Oigo la hierba gritar
contra la puerta. El hielo crepita. Hasta
la tierra ejecuta de memoria el tintinear
de una lámpara de aceite que quiebra en astillas
la niebla, astillas de invierno feroz.
Las herramientas en el huerto, las manos bajo
la bandeja. Llevamos ciruelas secas
en el manto negro del bosque. Aparece hasta
en el sueño esta libación. Es como
arrojar al Nilo una criatura hecha
de junco, un Dios del que sabemos poco.
(¿Por qué cesa el aliento en lo eterno?)

L'acqua al cervello è una foglia, LietoColle, Faloppio, 2014
Versión de Jorge Aulicino con la colaboración de Antonio Bux





LENTAMENTE SALE DAL BUIO L'ORA 
del fiume in piena. Sento l'erba stridere
contro la porta. Il gelo crepita. Anche 
la terra esegue a memoria il tinnire 
di una lucerna a olio che rompe scaglie
di nebbia, scaglie d'inverno feroce. 
Gli attrezzi nell'orto, le mani sotto
la guantiera. Portiamo prugne secche
nel manto nero del bosco. Appare anche 
nel sogno questa libagione. È come 
lasciare al Nilo una creatura fatta 
di giunco, un Dio di cui sappiamo poco.

(Perché depone il fiato nell'eterno?)



Sinossi

(…) La Sapienza grida: “Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della Terra. Quando non esistevano gli abissi, io fui generata, quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, quando ancora non aveva fatto la Terra e i campi né le prime zolle del mondo. Quando Egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della Terra, io ero con Lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie fra i figli dell’Uomo (…).

Libro dei Proverbi


EPPURE DOVREBBE TOCCARTI QUESTA
luce gioiosa, il sole, il fiume, il bosco
quando un riflesso argentato è il suo inizio.
Così comincia la preghiera. Un suono
di pietanze asserragliate all’interno
di una tovaglia cerata. E il corniolo,
l’impazienza notturna del corniolo
sporge da una porta, infittisce il cielo
con le foglie rosse e i rami ghiacciati.
Ci siamo perduti. E io non trovo pace,
parola, non trovo strada. Mi accerchio.
Di una mente contrita, convulsa. Tu
puoi dire: felice è il sonno dell’alba
perché il buio non tramonta. È l’eterno
che a sera, in festa, esegue la caduta.



POTREI DIRTI QUALE RICORDO SFUGGE
quale romanzo abbarbaglia il notturno
di ieri. Al telefono parlavi di altre
cose, non quotidiane, ma straniere:
tutto il rovesciarsi del cielo sulle
rose dell’orto e nel pellegrinaggio,
da te a me, una testa violenta, azteca.
Avrei chiuso se non fossi stata tu,
mia madre, a raccontare queste fiabe
di rinuncia ospedaliere. Hai mangiato?
lo chiedi sussurrando, sciogliendo la
voce nel piombo del primo fraseggio.
Ti rispondo che le patate muffe,
bollite non piacciono ai morti e che allo
specchio gli occhi non riescono a guardarsi
l’un l’altro. Anch’io sono straniero e cieco.
Come vedi siamo in due e uno è il paesaggio.


PORTAVO UN GIBUS NERO
quando era tempo di gramaglie e fieno
nel vecchio forno pubblico in via Piave.
Ci si alzava alle quattro.
Col pane azzimato e il lievito scuro.
Sono tornato a sognarlo stanotte.
Portavo un gibus nero.
Nero era ogni oggetto, lo sguardo, il volto.
Le lamentatrici funebri uscivano
presto. il grembiule di farina e zolfo.


LE GRATE, IL SENSO DEL TEMPO, L’AMMONIACA
scivolosa e tu che guardi l’antenna
spezzare un cielo rosso.
Le fiamme al lebbrosario, le sterpazzole,
tutto il falasco, terra nera e bionda
d’estate, quando torno
dallo Jonio a Terramozza,
spoglia e unta, occhieggia a est d’una barbabietola.


SULLE IRSUTE SUI LOGGIATI FIORISCONO
Salvia e ruta. Siedo sempre oltre il cespo
del rosmarino fermo
come una statua al crocevia salmastro
dell’eterno, che cade a precipizio
prima di farsi tempo.
Stasera una cincia si
spulcia le ali sotto un ramo di quercia.



CI SIAMO QUIETATI IN UN TEMPO CHIUSI
per non dire addio né affogare l’acqua
tra due pasture. E l’Angelo commuove.
Perché è il segno di luce che rapisce
le mani o il cieco assottigliarsi ansioso
di una mente col pensiero spezzato.
Sorge l’età del labirinto muto
dove anch’io sarò presto alto o smarrito.
Lungo è il paradiso che quaggiù affiora
se un precipizio calmo urta la soglia.


GELIDO È IL FUMO OCRA DELL’ACQUA. ANDAVO
per crepacci. E i pioppi e l’ombra dei miei occhi
striavano d’ospitali rimembranze
la notte che sarebbe giunta a forza
di pietra sul rossore dei miei polsi
sgranati. Cerca in questa ora di pace
la memoria, l’esultanza, la diaspora,
l’erba nel cielo, le radici al viso.




LA DISOBBEDIENZA

a C. S.

Cuore d'alleluja,una
radio al mattino presto
dirimpettaia vecchia
che in te evochi le rondini
spazio di torba e sale
tra gli alberi a sospingere
le acque col ventilabro
della pula e l'istinto
si declama feroce
quando non c'è urlo e i nervi
frantumano l'ingiuria.
Si bestemmia pregando
con la spina del sorbo
scivolata nel vino.


*

Volevo darmi un corpo
dare un corpo al mio sogno
mi ritiravo dietro
le siepi dei campi,una
luce di poiane,due
blocchi di tufo giallo
(resti di un orto antico)
la fuga nei miei passi
le pietre oscure e zoppe
la cecità di Maria
barbona maestra di ogni
ferrovia,con la bocca
sdentata,rinsecchita
nel fumo e nel ritardo
del tram che andrà via quando
la memoria selvaggia
della sera avrà fatto
cadere il primo sangue
nelle tasche dei lunghi
cappotti ricchi. Ah,i radi
viaggi e le aspre visioni.
Non so se per me il reale
sono le cose,i gesti,
le persone.E'un continuo
domandare la voce
che risponde ancellare
fuoco di Pentecoste.
Nulla torna e ogni cosa
tramanda una sotterranea
fedeltà al muratore
sedizioso e appestato
che smercia la passione
per denaro,una Taranto
marchetta del giardino
di stazione assolata
con latrine da qualche
centesimo e lo sguardo
di mia madre che manca
ma è lì,muta,e mi guar
La bellezza che avvolge
la sfinge della colpa.


*

Carezza,una lontana
carezza,la tua voce
fa più segreta ogni mia
parola e il teatro abbassa
le sue ombre desolate.
Ballerina di carillon
com'eri triste a sei anni
così bambina e dolce
grazia dell'acqua che unge
la mente e benedice
le ossessioni e tutte le
mie fughe per calanche
crivellate di corpi
sudati,bruni,corpi
muscolosi,animali,
ragazzi contadini
nella pioggia eterna di
giugno a guardarmi cupi,
tenebrosi,accigliati.
"Torna a casa",e non ridono.
Vorrei avessero in gola
il pianto notturno del
mio amore umiliato.Oggi
la libertà è me che urto
le libellule al vecchio
Casino del Salice e ballo e gioco.
Gioco come si gioca
da soli insieme ai morti
mentre i vivi li faccio
lavorare e costruiscono
prigioni e le mie labbra
parleranno nel tempo
con la notte che fruga
nei cretti della voce
per turbarmi e distrarre
la mente e allontanare
le bestie e amarne le ombre
suggestioni del sangue.


*

Torremozza era anche Schubert.
Ma Zoran Music ebbe
la forza nera e lucida
di una valigia piena
di ossa e cominciai a scrivere
"Nous ne sommes pas les derniers".
Quei corpi senza corpo
senza polvere,un duro
congegno della carne
quando muore,una pietra
che non è più pietra e non
si accresce smisurata
nella morte,il confine
delle cose assolute,
la mia dissolvenza e la
mia dissoluzione.Oggi,
quanti oggi in cui torni ebbra
Torremozza,felice
prostituta del borgo
della menzogna,implora
la mente,non distrugga
l'ampiezza delle nostre
paranoie celesti
l'epistassi del diario
nottivago a pregare
che la luce azzurrina
della legge venisse
spenta.Il buio non era
buio,i muri lagnosi,
le mani arse di frodo
quando eri tu a staccarti
la flebo,lento,come
un soldato col suo elmo.


*

Ho posato gli occhiali.
Non c'è nebbia.La strada
mi appare fioca,un fiume
di stagnola e la bianca
presagita promessa
di togliermi dal sacro.
Gioventù non perdona
quando a sottrarsi è il corpo
della terra.E il mio amato
tormento innamorato
non possiede cavalli
di guerra e le assolute
manie del male fissano
lo specchio cieco e cieco
di una cecità immobile,
tradita,tramandata.
Gericault è acre e infetto.
Dove ardi mio fratello
di guerra che disprezzi
la vocazione e il corpo
bagnato nell'azzardo
del destino,sei molto
più in qua del mio rimorso
per tuo padre.Non pensi
che puoi amarlo più libero
ora che è morto e siamo
noi due soli a volerlo
quaggiù.Il suo teatro vuoto.
Teatro insepolto.Teatro
salvato.E la sua recita
così napoletana
la recita risorta
di una nascita finta,
nostalgica.Era un modo
di stare nella nostra
verità,io figlio in cerca,
nudo,in un letto di orfano.


*

Il caldo,il freddo,le arie
perdutamente arcane
di un ribelle che scelse
di ammalarsi e di avere
così un passo,una storia,
un romanziere dentro
le viltà inabitate
le viltà sottomesse
le viltà mutilate
la viltà come un ramo
che dorme sulla neve.
Sulla neve notturna
la nera mestruazione
di Rita,gocce tonde,
l'oleandro ne era fiero
più del male e al mattino
si copriva la neve
macchiata con la pala
la neve rovesciata
nell'aurora,per terra,
ma la terra era nuda
e niente di quel sangue
tramandò nell'offesa
il mio pudore o l'arte
di intrecciare due sillabe
vive,come se fossero
vere le cose indegne.


*

Questo non voglio:amare
le nuvole e soffrirne.
Questo non voglio:l'eco
del tuo pianto nei miei occhi.
Non voglio questo:dire
che la morte è una madre
o un insetto o una luce
lontana come il mare
che vedrai una mattina
di primavera stretto
nel cappotto di lana
come un furto o un'infanzia.

*

Lo sguardo attonito,di
marmo e crine,le forze
decomposte dei nervi.
Questo è mio padre morto.
Mio padre morto. Prima
del silenzio e di ogni atto
di giustizia tradito.
Padre del vento astuto
dei mercati e padre mio
che mi attenui ogni sera
la fine e l'innocenza.
Padre perdona il bianco
del vuoto in cui ti ho chiuso.
Avrei voluto almeno
la luce fosse il grande
orizzonte. Ah le gambe
strette allo spago e un altro
padre che beve l'acqua
dei maiali nel truogolo.
Padre amato nel male
del mio male profondo.
Ricorda,padre,l'albero
così radicato e il blu
dell'invidia dei poeti.
Sia questo il chiaro e semplice
cartiglio al regno beato
del tuo martirio,un gioco
di quelli che ci rendono
salvi e fuggire ai boschi
dove poi davanti a te
mi genufletto e piango
di gioia se amo il padre
mio ritrovato e morto.

(San Mauro Forte, 28-29 maggio 2014)






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